Marco Malvaldi, una penna a metà tra suspense e humour

Lo scrittore si racconta e parla dei suoi romanzi e di come la lingua fa la differenza , nei gialli e non solo

«Più che giallista, mi sento un umorista, senza dubbio. Ma non posso dirlo, sennò faccio meno ridere. Ho scelto il giallo proprio per questo: si ride dell’inaspettato, e nessun ambiente è meno propenso a far ridere della scena di un crimine». Si racconta così Marco Malvaldi, lo scrittore pisano noto per la sua serie di gialli ambientati al BarLume, il bar di Pineta, cittadina immaginaria sulla costa toscana fra Pisa e Livorno. Il prossimo 7 novembre sarà anche lui ospite dell’evento dell’Accademia della Crusca, per parlare dei suoi romanzi e di come la lingua fa la differenza, nei gialli e non solo.

Citando dal suo romanzo Argento vivo, «A volte il mistero si nasconde nel linguaggio»: in che senso?
Il linguaggio naturale è ambiguo per definizione. Usiamo in continuazione pronomi, espressioni gergali o parole che sono sia verbi che sostantivi: se scrivo “una vecchia porta la sbarra”, che cosa sto dicendo? Che una anziana signora reca con sé un oggetto oblungo oppure che un uscio di antica fabbricazione impedisce l’accesso a una stanza? Quando usiamo il linguaggio spesso siamo consapevoli di questa ambiguità, ma a volte no.

Che lingua parlano i suoi personaggi?
I vecchietti parlano in toscano, principalmente per verosimiglianza: giocando a briscola un pensionato non direbbe mai “e che diamine, hai giocato una carta avulsa dal contesto”. Direbbe “se gli scemi volassero, bisognerebbe darti da mangiare con la fionda”. Che abbia giocato una carta sbagliata, è implicito nell’insulto e non va nemmeno specificato. Questo è funzionale al racconto nella misura in cui, raccontando solo le reazioni e non esplicitando le motivazioni, ognuno si immagina il motivo per cui una data cosa è successa, il che per un giallo può servire…

«Benvenuti in Toscana, nella patria del dubbio»: con quali espedienti ritrae la toscanità?
Ci sono gli espedienti ovvi, come i diminutivi, alcune espressioni tipiche; poi c’è un uso mirato della scurrilità, della ghiozzata, che non deve essere fine a se stessa, ma deve svegliare, rompere la monotonia e dirti che quello che viene detto è importante. Poi c’è l’espressione principe, che è proprio pol’esse’: il massimo grado di certezza, dalle nostre parti, è proprio il dire che non hai (ancora) trovato nulla che contraddica ciò che hai detto.

Dove ha preso spunti per ritrarre luoghi e persone in modo così ricco e realistico?
Alcune delle persone che compaiono nel BarLume sono persone reali, a partire da Ampelio, che è un ritratto piuttosto fedele di mio nonno Varisello – mentre Aldo è una proiezione, o una gufata se preferisce: è come mi immagino che sarò io a ottant’anni e passa. E mia moglie questa cosa non me la perdona, visto che Aldo è vedovo.

Le piace la versione televisiva dei suoi romanzi?
Non mi piace per nulla. I personaggi sono diversi, e c’è un uso della volgarità da terza elementare che la rende fastidiosa. Tutto questo al netto degli attori, che sono bravissimi: Alessandro Benvenuti in primis, ma anche Lucia Mascino, Atos Davini e Stefano Fresi sono dei “mostri”.

Sui social i giovani parlano una lingua parallela a quella del BarLume…
Adoro la fantasia che i ragazzi riescono a mettere in meme, stickers e roba del genere: credo che questo genere di comunicazione sia solo un arricchimento. Soprattutto il fatto che lo usano per fare umorismo, che è sempre più difficile. Detesto invece le faccine, gli emoticon e la roba prefritta: non si può comunicare copiando e incollando. Ma si possono ottenere risultati geniali: abbinando l’emoticon del maiale a quello del vento, per esempio…

Un indizio sul suo prossimo libro?
Eh… bella domanda. Ho tre idee in ballo, devo vedere quale scegliere. L’unica cosa di cui sono sicuro è che sarà un giallo.

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