Le vele scarlatte

Ottavo appuntamento della rubrica dell’Informatore online dedicata al cinema, realizzata in collaborazione con lo Spazio Alfieri di Firenze, nell’ambito del “Premio Claudio Carabba”. Pubblichiamo la recensione di "Le vele scarlatte" di Viola Niccoli, studentessa dell'Università degli Studi di Firenze

Un altro appuntamento della rubrica dell’Informatore online dedicata al cinema, realizzata in collaborazione con lo Spazio Alfieri di Firenze, nell’ambito del “Premio Claudio Carabba”, giunto ormai alla seconda edizione, indetto dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani Gruppo Toscano (SNCCI), dallo Spazio Alfieri, il programma Lanterne Magiche FST, con il supporto di Unicoop Firenze.

Gli autori dei migliori elaborati dell’edizione 2023 saranno premiati con un soggiorno di cinque giorni alla Mostra del Cinema di Venezia, che quest’anno si svolgerà dal 30 agosto al 9 settembre.

Racconteremo le loro impressioni e recensioni “in diretta” sui canali social dell’Informatore online.

Nell’attesa del Festival di Venezia pubblichiamo la recensione del film Le vele scarlatte del regista Pietro Marcello, scritta da Viola Niccoli, studentessa dell’Università degli Studi di Firenze.

La recensione

Diventare grandi tra sogno e pessimismo

«I cosiddetti miracoli si possono compiere con le proprie mani» (1). Questa frase, in apertura al film, è tratta dall’omonimo romanzo di Aleksandr Grin, che dopo cento anni vede la sua trasposizione cinematografica in quest’opera di Pietro Marcello. Leggo le parole sullo schermo, e mi viene alla mente il racconto di un amico che ha lavorato sul set di Le otto montagne: Borghi passava ore e ore assieme ai montanari per imparare a parlare e muoversi come loro. Ma c’era una cosa che li avrebbe sempre resi diversi, Borghi e i montanari: le mani, appunto.
Le mani dei contadini e dei pastori valdostani erano pesanti come macigni, rosse come mattoni; erano gonfie, infiammate, callose. Le loro dita avevano il doppio, il triplo di circonferenza delle dita di Borghi, e l’attore avrebbe potuto sì imparare perfettamente il loro dialetto (ci è riuscito difatti) ma le mani lo avrebbero sempre tradito.

Le mani di Raphaël Thiéry, invece, sono tutta un’altra cosa: rivelano la storia del personaggio che interpreta. Una storia d’amore e di sofferenza. Quest’uomo, sopravvissuto agli orrori della prima guerra mondiale, torna al caldo focolare domestico, dove lo aspetta però un orrore ben più grande: Marie, la donna che ama, non c’è. È un’altra donna, Adeline, a dargli la tragica notizia: sua moglie, seppur a riparo dai colpi di fuoco, è morta (la colpa è da ricondurre alla prepotenza maschile, ma su questo tema torneremo più avanti). E Raphaël soffre, col volto e con le mani. Ma ad attenderlo c’è anche quella che diventerà la nuova donna della sua vita: sua figlia Juliette. E con le sue mani tozze, Raphaël la cresce amorevolmente; intaglia finemente il legno, suona dolcemente la fisarmonica. Mani che accarezzano, lavorano, suonano. Mani che consigliano, sopportano, urlano. Sono un vero e proprio personaggio all’interno del film: un po’ come “Mano” in La famiglia Addams, hanno anche loro vita propria.

Padre e figlia formano una squadra inseparabile. Raphaël ama e rispetta Juliette («io non prenderei mai una decisione senza parlarne con te, decideremo quello che vogliamo fare sempre insieme») e lei, percependolo, ricambia: non lo lascia mai da solo, e quando non riesce più a vendere i suoi giocattoli in legno (i tempi sono cambiati, e anche la dimensione infantile del gioco si è fatta mercato) lo aiuta a trovare un altro lavoro. Farebbe di tutto per vedere il padre sereno: se fosse necessario agirebbe come ha agito Belle, e prenderebbe il suo posto nel castello della Bestia.

Perché Juliette è la principessa di questa fiaba cinematografica in 4:3. E come in ogni fiaba che si rispetti, non manca l’aiutante: una maga predice alla bambina che un giorno potrà «vedere lassù nel cielo delle vele scarlatte» che la salveranno e la porteranno via da lì, e le ricorda che «i sogni si possono avverare». Un po’ quel che accade nel Colibrì, quando al protagonista Marco Carrera viene predetto che “gli aerei saranno importanti nella sua vita”: ecco, gli aerei saranno importanti anche nella vita di Juliette (ma positivamente in questo caso).

E così gli anni passano, e quella bambina, nutrendosi d’attesa, si è fatta grande. Per restare ben salda nel suo sogno legge e canticchia L’ hirondelle della comunarda Louise Michel: «…Hirondelle fidèle, où vas-tu? Dis-le-moi. / Quelle brise t’emporte, errante voyageuse? / Écoute, je voudrais m’en aller avec toi. / Bien loin, bien loin d’ici. […] Hirondelle aux yeux noirs, hirondelle, je t’aime!…» («… Fedele rondine, dove stai andando? Dimmelo. / Quale brezza ti porta, viaggiatore errante? / Ascolta, voglio andarmene via con te. / Lontano, lontano da qui […] Rondine dagli occhi neri, rondine, ti amo!…»).

E un giorno quella rondine dagli occhi neri – tanto cantata – arriva davvero: plana dal cielo a bordo di un aeroplano. L’amore, l’aviazione, la magia. La natura. Sembra un film di Hayao Miyazaki: «gli aeroplani sono uno splendido sogno» (Si alza il vento, H. Miyazaki, 2013). E sono proprio questo per Juliette: un sogno che si avvera. Una fiaba a lieto fine. Dunque, come aveva predetto la maga, le vele scarlatte arriveranno. Ma la parità di genere? Quando arriverà?

Maurizio Braucci – co-sceneggiatore del film assieme a Pietro Marcello, Maud Ameline e Geneviève Brisac – dice che è stato difficile adattare il racconto, e descrive sé e il regista come «uomini che condividono la causa femminista ma sentono comunque di stare dal punto di vista degli aggressori». Ma devo dire che, nonostante i timori degli autori, il risultato ottenuto è più che soddisfacente. Il film è femminista già nella frase con cui il protagonista maschile presenta se stesso ad Adeline e al pubblico: «Sono Raphaël, l’uomo di Marie». Non dice “mi chiamo Raphaël e Marie era la mia donna”. Sembra una banalità, ma non lo è.

C’è un intero romanzo (e poi film) che si basa su questo apparentemente insignificante assunto: La donna di Gilles di Madeleine Bourdouxhe. La protagonista, Élisa, non è altro se non la donna dell’uomo che ama (di un amore molto discutibile). Una donna sconfitta, annientata, la cui unica piccola rivalsa consiste proprio – sul finale della sua triste vicenda – nel ribaltamento della posizione di questi due sintagmi: “Gilles… l’uomo di Élisa!” e non più il contrario.

Quindi ecco, è importante il modo in cui si presenta Raphaël. D’altronde, si sa, la prima impressione è quella che conta, e il film non si smentisce: la causa femminista serpeggia continuamente, e viene posto l’accento sull’ingiusto predominio maschile. Adeline dice che «quando ci fanno del male noi ci colpevolizziamo», ed è questo che ha provato Marie in seguito alla violenza sessuale che le è stata inferta: un ingiusto senso di colpa che l’ha portata addirittura a morire. Juliette canticchia assieme all’amica «si tu es une fille soit mille fois plus vaillant de qu’un garçon» («Se sei una ragazza devi essere mille volte più coraggiosa di un ragazzo»), perché ciò che per diritto è permesso a tutti gli uomini, è concesso per merito solo a pochissime donne, che devono dimostrare di esserselo guadagnato. Un’operaia, davanti all’ingiustizia del suo stipendio – più basso rispetto a quello dei suoi colleghi maschi – alza la voce col suo datore di lavoro: «e gli uomini perché guadagnano di più?».

Ed è questo che caratterizza le donne in questo film: il coraggio di parlare. Se Raphaël ha le mani, Juliette ha la voce. Una voce con cui fa valere la propria opinione, una voce con cui canta per alleggerire le ingiustizie del mondo (accompagnata dalle splendide melodie di
Gabriel Yared).

E anche se attende l’arrivo del suo principe azzurro (o meglio, scarlatto), Juliette – quando questo arriva – non gli si rapporta con passività. È un’eroina che agisce, sceglie e, se vuole, rifiuta. E quando accetta, non lo fa mai con sottomissione «Si può vivere bene anche senza un uomo» le dice Adeline. E questo Juliette lo sa, ma sa pure che si può vivere bene anche con un uomo. Glielo ha insegnato proprio suo padre.

(1) Una tecnica del miracolo: leggo sul mio manuale di estetica che il «termine greco techne indica ogni attività umana che, connessa all’uso delle mani e alla trasformazione fisica di materiali, abbia carattere poietico, cioè produttivo». Raphaël plasma il mondo che lo circonda, a partire dalle sue creazioni col legno. Un miracolo è un fatto da attribuire a un intervento soprannaturale, e compierlo «con le proprie mani» significa dare valore all’operato dell’uomo.
Raphaël compie «i cosiddetti miracoli», realizza, fabbrica i sogni, che quindi «si possono avverare»
.

Sinossi del film

Le vele scarlatte
di Pietro Marcello
con Juliette Jouan, Raphaël Thierry, Noémie Lvovsky, Louis Garrel, Yolande Moreau
Genere: drammatico
Durata: 100 minuti
Italia, Francia 2022


Una fiaba semplice e antica raccontata secondo codici scomparsi, con gentilezza ed empatia. “Vele scarlatte” è un racconto dello scrittore russo Alexandr Grin

Il soldato Raphael torna dalla Grande guerra al suo villaggio normanno, identificandosi come “l’uomo di Marie”. Marie non c’è più, ma c’è una bambina di cui Raphael ignorava l’esistenza: è sua figlia Juliette, che diventerà la sua ragione di vita. Per lei l’uomo ricomincerà a fare il falegname, dimostrandosi l’artigiano migliore della zona e un eccellente intagliatore. Ad aiutarlo c’è Madame Adeline, una vedova di buon cuore che accoglie entrambi nella sua fattoria. Ma Raphael, Juliette e Madame Adeline non sono ben visti nel villaggio, che considera l’uomo colpevole di omissione di soccorso, e le donne due streghe – come ogni “femmina non addomesticata”. Il loro è tuttavia un percorso di speranza, in attesa del passaggio delle vele scarlatte pronosticato a Juliette dalla maga del paese. road-movie, in cui il sangue scorre e fa palpitare i cuori.

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