Terra nostra

In 25 anni l’Italia ha perso un quarto del terreno coltivabile: lo stato del sistema agro-alimentare. Intervista a Sara Guidelli, direttore di Legacoop agroalimentare e Ettore Prandini, presidente nazionale di Coldirettti

«Il battito di ali di una farfalla in Brasile può causare un tornado in Texas», la frase è del 1979 e la pronunciò il meteorologo e matematico statunitense Edward Lorenz per spiegare quanto sia interconnesso il mondo contemporaneo a livello climatico e non solo. Oggi è la guerra in Ucraina a rendere evidente la fragilità del sistema alimentare contemporaneo. Un sistema così delicato che in più di uno hanno paventato carenze di grano e olio di semi per la prossima stagione. Ma è davvero così? «Per adesso si tratta per lo più di allarmismi e di speculazioni. Non c’è un pericolo imminente di carenza di prodotti, oltretutto sia l’Italia sia l’Europa non dipendono così fortemente dai due Paesi in guerra; infatti le importazioni di frumento tenero dalla Russia e dall’Ucraina valgono complessivamente circa il 4% del volume di grano tenero trasformato in farine dai mulini italiani» rassicura Sara Guidelli, direttore di Legacoop agroalimentare e da poco “accademica corrispondente” dei Georgofili.

Per quanto riguarda l’olio di girasole il consumo in Italia si aggira sulle 770mila tonnellate, ma la produzione nostrale arriva solo a 250mila tonnellate di olio grezzo. In questo caso l’Ucraina, e la Russia, rappresentano un punto di riferimento con il 60% della produzione mondiale di olio di girasole e circa il 75% dell’export. In Italia dall’Ucraina arrivano il 15% del mais e il 65% dell’olio di girasole impiegato per la produzione di dolci, conserve, salse, maionese, condimenti spalmabili, da parte dell’industria alimentare, oltre che per le fritture.

Importazioni in Italia nel 2021 – Fonte Coldiretti

L’ottovolante dei prezzi

Altro tema caldo quello dei prezzi. «Sono anni che le materie prime vivono sull’ottovolante – spiega Ettore Prandini, presidente nazionale di Coldiretti -. La volatilità delle quotazioni è un grande problema. È già successo nel 2008, ma una situazione così drammatica, con la guerra che interessa la nostra Europa, ha sparigliato tutte le carte. E ha messo a nudo le fragilità del sistema agroalimentare dell’Unione Europea, che in questi ultimi anni non ha mai perseguito una politica finalizzata ad accrescere le produzioni».

Su questo equilibrio già precario la guerra ha provocato «uno choc dei mercati mondiali. I prezzi delle commodity alimentari (materie prime di rilievo internazionale, ndr), che si formano alla Borsa di Chicago o al Matif di Parigi, sono spesso legati alle fluttuazioni e alle speculazioni che si spostano dai mercati finanziari in difficoltà ai metalli preziosi come l’oro, fino ai prodotti agricoli, per i quali le quotazioni dipendono sempre meno dall’andamento reale della domanda e dell’offerta e sempre più dai movimenti finanziari» prosegue il presidente di Coldiretti.

Bilancio positivo ma…

L’istantanea del nostro Paese ci mostra un’agricoltura deficitaria in molte materie prime: produciamo solo il 36% del grano tenero che serve per pane, biscotti, dolci, il 53% del mais per l’alimentazione nelle stalle, il 51% della carne bovina, il 56% del grano duro per la pasta, il 73% dell’orzo, il 63% della carne di maiale e i salumi, il 49% della carne di capra e pecora, mentre per latte e formaggi si arriva all’84% di autoapprovvigionamento.

Secondo l’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), negli ultimi dieci anni l’import agricolo dell’Italia è cresciuto del 55%. Dall’estero arriva il 20% in più di pesce, il 51% in più di frutta fresca e trasformata, il 21% di ortaggi e oli. Nonostante ciò, la bilancia commerciale italiana del cibo è in positivo. Nel 2021, secondo dati Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), abbiamo esportato prodotti agroalimentari per 52 miliardi di euro, +12,6% sul 2020 e +3,5% sul 2019, e ne abbiamo importati (soprattutto materie prime) per 48,5 miliardi di euro.

A posto così, quindi? Non per chi di agricoltura vive.

Terreni rubati all’agricoltura

Nel 1960 abbiamo raggiunto la superficie massima di 21 milioni di ettari coltivati. «Da allora, in 50 anni, abbiamo perso oltre 8,3 milioni di ettari, il 39%. Questo per una serie di fenomeni tra cui l’abbandono delle terre marginali, e il conseguente aumento dei boschi per circa 3,4 milioni di ettari, e la sottrazione di suolo agricolo per opere di urbanizzazione (circa 1,5 milioni di ettari)» racconta Guidelli. In sintesi, negli ultimi 25 anni l’Italia ha perso un quarto del terreno coltivabile.

Ma la motivazione profonda dei tanti terreni e braccia rubate all’agricoltura è da ricercare nell’inadeguatezza della redditività dell’agricoltura, spiegano da Legacoop agroalimentare, e da Coldiretti confermano: «Chi produce è stato stritolato dagli anelli più forti della filiera, che spesso hanno preferito acquistare nel mondo con un approccio speculativo, anziché garantirsi la qualità e la continuità delle forniture. Senza redditi adeguati le imprese non vanno avanti. Ultimamente l’aria è cambiata e molti giovani stanno riscoprendo l’attività agricola, anche se il problema della redditività resta».

Prospettive

Ma c’è anche qualche buona notizia: dall’Unione Europea arriva il via libera alla semina in Italia di altri 200mila ettari di terreno (equivalgono a poco meno della metà della superficie del Molise) per una produzione aggiuntiva di circa 15 milioni di quintali di mais per gli allevamenti, di grano duro per la pasta e tenero per la panificazione.

Per consentire agli agricoltori di restare su quelle terre, è necessario assicurare reddito e prezzi equi. La svolta può arrivare con i contratti di filiera su cui il Governo con il Pnrr ha stanziato 1,2 miliardi di euro. Quello di Unicoop Firenze per la produzione di farina 100% toscana sta dando buoni frutti per coltivatori e consumatori, con prezzi di acquisto e di vendita fissati in anticipo e il vantaggio di valorizzare il territorio.

Al di là dei buoni esempi, le azioni da intraprendere sono molte: «Occorre investire per aumentare la produzione e le rese dei terreni, con bacini di accumulo delle acque piovane per combattere la siccità, ma bisogna anche contrastare seriamente l’invasione della fauna selvatica che devasta le colture, costringendo in molte zone interne all’abbandono dei terreni; bisogna poi sostenere la ricerca pubblica con l’innovazione tecnologica a supporto delle produzioni e della tutela della biodiversità» conclude Prandini.

Quella che serve dunque è un’agricoltura 4.0 perché anche la terra abbia davanti un futuro. Tutto da costruire.

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