La lingua dei banchetti rinascimentali

Un assaggio di storia e geografia linguistica e culturale dell'epoca con gli esperti linguisti dell'Accademia della Crusca

Accademia della Crusca
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Un progetto dell'Associazione Amici dell'Accademia della Crusca, sostenuto da Unicoop Firenze, in collaborazione con gli esperti linguisti dell'Accademia fiorentina, per raccontare e far conoscere il patrimonio storico e culturale della Crusca e la sua attività.

«Una festa magnifica, tutta ombra, sogno, chimera, finzione, metafora e allegoria». La serie di questi sostantivi condensa in una frase le atmosfere di un banchetto rinascimentale. A scriverla (non senza una punta di sarcasmo, lamentandosi di un mancato finanziamento) è Cristoforo Messi Sbugo, autore di uno dei testi più rappresentativi del Rinascimento culinario: Banchetti, composizione di vivande e apparecchio generale (Ferrara, 1549). Messi Sbugo organizzò e fu il “regista” di numerosi eventi organizzati alla corte degli Estensi. Leggere la sua opera è come aprire una finestra sulle abitudini, non solo alimentari, dei nobili del tempo: durante un banchetto si poteva assistere anche a spettacoli teatrali (come, per esempio, la Cassaria di Ludovico Ariosto) o godere della lettura ad alta voce delle ultime novità letterarie, si ascoltava ottima musica e, sulle note dei migliori esecutori del tempo, si ballava fino a tardi.

Per quanto riguarda la lingua, i Banchetti testimoniano da una parte l’adeguamento al modello del fiorentino trecentesco (codificato da Pietro Bembo nel 1525) e, dall’altra, la dimensione locale, in questo caso ferrarese e più in generale settentrionale. Non mancano riferimenti ad altre aree, anche meridionali: per esempio, i maccheroni sono generalmente una specie di gnocchi, ma vengono descritte come delle spesse tagliatelle («sfoglie grossette, liste strette e longhette») quando si chiamano maccheroni alla napoletana. Stesso nome, ma tipi di pasta diversi dunque, in ogni caso mai conditi con il pomodoro, come faremmo oggi. Il re della dieta mediterranea, nella forma pomi d’oro, compare per la prima volta nel 1544 non in un testo di cucina, ma in un’opera del medico senese Pietro Andrea Mattioli (GDLI s.v. pomodoro).

Tra le fonti ricordiamo anche l’Opera di Bartolomeo Scappi, cuoco segreto (cioè “cuoco privato”) di Papa Pio V, un trattato in cui si trovano denominazioni che, da nord a sud, coprono tutto il territorio italiano, con uno sguardo anche al contesto europeo (con preparazioni alla bergamasca, alla napoletana, alla tedesca, ecc.).

Questa varietà di cose e di parole, se mappata, ci può restituire la storia e la geografia linguistica e culturale dell’epoca, sotto la lente di uno degli aspetti essenziali per le donne e per gli uomini di tutti i tempi: il cibo (con questo obiettivo nasce il progetto nazionale, in via di sviluppo, dell’Atlante della lingua e dei testi della cultura gastronomica italiana dal Medioevo all’Unità – AtLiTeG).

La stagione dei banchetti ha forti legami con la tradizione medievale precedente (continuiamo a trovare i maccheroni e i ravioli di Boccaccio) ma è anche ricca di novità gastronomiche e linguistiche che dureranno nel tempo. La parola stessa, banchetto, comincia a circolare con il significato attuale (e non solo di ‘piccolo banco’) nel XVI secolo, come sinonimo del già diffuso convito, come si legge nel Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1612.

A guardare i testi e i documenti dell’epoca, preziosa fonte per il lessico del cibo, i menù si mostrano in tutta la loro ricchezza, con vivande di ogni tipo, alcune particolarmente strane, e lontani dalla nostra attuale cucina come i pasticci di tartarughe (Scappi) e le gru arrosto (gru ‘cicogne’).

La sontuosità dei banchetti passa anche per l’aggettivazione: piatti “poveri” come le zuppe quando vengono serviti a corte diventano quasi sempre dorate, reali o imperiali. Imperiale è anche la pizza (picza), che niente ha a che vedere con il nostro “cerchio della felicità”: si tratta ancora di una preparazione dolce, a base di uova, zucchero e mandorle (Camuria, Apparecchi diversi).

Non mancano nelle tavole imbandite diverse varietà di vini, e al XVI risale il vocabolo birra, preso in prestito dal tedesco. Ma con il luppolo (che Messi Sbugo chiama lovertiso) si faceva anche una minestra. Occhio anche al cordiale: nel Rinascimento più che un liquore digestivo è una ‘salsa preparata con le uova’, forse una specie di maionese ante litteram.

(a cura di Veronica Ricotta)

Riferimenti bibliografici

· Maria Catricalà, La lingua dei “Banchetti” di Cristoforo Messi Sbugo, «Studi di lessicografia italiana», 4, 1982, pp. 147-268.

· Giovanna Frosini, L’italiano del cibo: storie, parole, persistenze, novità, in Cultura del cibo, volume III, L’Italia del cibo, direzione di Alberto Capatti e Massimo Montanari, Torino, UTET Grandi Opere, 2015, pp. 477-491.

· Camuria, Apparecchi diversi = Anton Camuria, Apparecchi diversi da mangiare. Ricettario cinquecentesco sulle orme del grande Roberto da Nola cuoco di re Ferrante d’Aragona, a cura di Lejla Mancusi Sorrentino, Accademia italiana della cucina (delegazione di Nola), Ricciardi e associati, Roma, 2012.

· Messi Sbugo, Banchetti = Cristoforo Messi Sbugo, Banchetti, compositione di vivande et apparecchio generale, Ferrara, Per Giovanni de Buglhat et Antonio Hucher Compagni, 1549.

· Scappi, Opera = Bartolomeo Scappi, Opera […], Roma, Per Michele Tramezzino, 1570.

· GDLI = Salvatore Battaglia (a cura di), Grande Dizionario della Lingua Italiana, Torino, UTET Grandi Opere, 1961-2002 consultabile anche all’indirizzo http://www.gdli.it].

· Le cinque edizioni del Vocabolario degli Accademici della Crusca sono consultabili in versione digitale all’indirizzo http://www.lessicografia.it

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