Burocra-lingua

L’Accademia della Crusca aiuterà le istituzioni a rendere più comprensibili leggi e documenti

Il morbo della burocrazia non conosce pandemie. Anche in tempi tragici, come questi, dominati dalla paura del contagio da Covid 19, i cittadini si sono visti cambiare almeno tre volte il modulo che permette loro di uscire di casa per motivi di necessità. Ogni volta che arriva un nuovo decreto del governo, ecco che il Viminale cambia le voci del modulo. Anche di poco, ma tanto basta a costringere i cittadini a stampare un nuovo foglio e riempirlo ex novo.

Paradossi della burocrazia che con i suoi lacci imbriglia la vita del Paese e si insinua prepotente anche nella sua lingua.

Tempo fa al presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini è capitato di imbattersi in un cartello appeso davanti a un ristorante chiuso nel quartiere fiorentino di Castello, che recitava: «Si avvisa che in data odierna si è proceduto ad immissione nel possesso del fondo in favore del signor…, si ingiunge a parte esecutata di non più ingerirsi all’interno dello stesso sotto sanzioni di legge». Marazzini prese il suo cellulare e fotografò il cartello, con l’intenzione di usarlo come esempio di italiano burocratico sbagliato. In seguito, fece leggere la frase ad alcuni amici magistrati. «E il colmo fu che tutti mi dissero che era corretta!» esclama oggi.

Negli ultimi anni si sono moltiplicati libri e manuali per riuscire a colmare questo baratro. Di recente, infine, la ministra della Funzione pubblica Fabiana Dadone ha firmato un accordo con l’Accademia della Crusca per favorire il buon uso della lingua italiana nella comunicazione con i cittadini. Come ci riusciranno? «Non tanto con manuali e vademecum, ma con una serie di incontri faccia a faccia con tecnici e burocrati. C’è bisogno di semplificazione ma anche di esempi pratici» continua Marazzini. La nostra lingua burocratica è un oscuro groviglio di anacronismi e inglesismi. Si spazia da feedback ad ammenda. E il cittadino si perde.

«La critica verso la lingua della burocrazia iniziò nel primo Ottocento – racconta Marazzini -. Già allora venivano usati francesismi, come bureau al posto di ufficio. Successivamente, da Sabino Cassese a De Mauro, in molti si sono occupati del problema, non solo e non tanto per una questione di stile linguistico, quanto per il diritto alla comprensione delle norme sancito dalla nostra Costituzione».

La faccenda si è fatta più intricata con l’avvento di internet, con la lingua del web che ha di nuovo sparigliato le carte. «Oggi si parla tanto di smart working. Perché non chiamarlo lavoro agile? Chi si immaginava che il linguaggio del web, comprese le emoticon, quelle faccine che esprimono gli stati d’animo, avrebbe preso tanto campo? Se pensiamo che ancora oggi 10 milioni di italiani non hanno accesso alla rete internet (il cosiddetto digital divide) e sono perlopiù anziani, possiamo capire la grande sfida che ha davanti il nostro Paese». Non solo. Stando agli ultimi sondaggi, i giovani vanno in rete ma capiscono solo la metà di quello che si trovano davanti.

C’è poi un altro fatto. Quando la burocrazia si sente attaccata, tende a chiudersi a riccio. «Lo so bene. Ricordo un lavoro immane per convincere le Ferrovie a trasformare la frase “operazioni di controlleria” in “controllo dei biglietti”». Dai tempi del de cuius a oggi la battaglia per una lingua comprensibile e quindi democratica si è spostata nel mare magnum del web, dove tutto corre veloce e dove non è facile stare al passo con le innovazioni. «Per evitare di finire nell’antilingua, come la definiva Calvino, c’è bisogno di essere chiari, non prolissi, semplici e diretti».

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