Sono state fra le prime a fare dei lavori considerati da uomini, e senza rendersene conto hanno avviato una rivoluzione che ha cambiato il modo di pensare di questo Paese.
Maria Gabriella Luccioli, diventata giudice di cassazione e autrice di sentenze innovative sui temi dei diritti, e Felicetta Maltese, capostazione sul campo, raccontano le loro storie.
Giustizia al femminile
Maria Gabriella Luccioli nasce a Terni in una famiglia dove le donne erano tutte professoresse, normale pensare che fosse lo sbocco naturale anche per lei. E invece al momento della scelta dell’Università la prima silenziosa ribellione, a Lettere preferisce Giurisprudenza.
«La mia scelta suonava eversiva, ma in realtà a me non sembrava, ero giovanissima e non avevo maturato una riflessione sul problema della differenza di genere – spiega la giudice -. Quando nel 1963 la legge aprì le porte della magistratura alle donne, mi iscrissi al concorso e partecipai con lo spirito di sacrificio che aveva contraddistinto tutta la mia carriera di studentessa: non fu difficile superarlo».
Otto giovani laureate vinsero il concorso e in occasione del saluto ufficiale alla Corte d’appello di Roma, il procuratore generale non mancò di sottolineare le minori capacità intellettive e di giudizio delle donne, augurando alle nuove leve di dedicarsi al lavoro di giudice minorile. «Non fu molto incoraggiante come inizio. I colleghi ci guardavano con curiosità e quelli più anziani ci riservavano atteggiamenti paternalistici. Come primo incarico fui affidata al tribunale di Montepulciano, un foro civilissimo dove non ricevetti critiche in quanto donna. L’unico momento di competizione era in autostrada, quando tornavamo a Roma, perché alcuni giovani colleghi maschi non tolleravano che alla guida fossi più veloce di loro» scherza Luccioli.
La sua carriera prosegue con numerosi successi e molte sentenze, ma a un certo momento si avverò in parte quell’augurio che aveva ricevuto all’inizio della sua carriera, poiché fu incaricata di presiedere la sezione della Cassazione che si occupa dei diritti di famiglia e delle persone: «Non la presi benissimo, però poi ho capito che è stata una grande opportunità per portare un punto di vista diverso in una materia fondamentale che riguarda tutti».
Sue infatti le sentenze sulla vicenda di Eluana Englaro (autodeterminazione terapeutica per i malati terminali) e sull’affidamento di un bambino ad una coppia omosessuale. «Oggi il 53% dei magistrati è donna, però solo il 4% ha ruoli direttivi. È un problema di rappresentanza che va superato – precisa Luccioli -, ma per farlo, lo ripeto alle donne, non è necessario appiattirsi su modelli maschili, la differenza è una ricchezza».
8 marzo 2020, la campagna di Unicoop Firenze
Il treno porta lontano
Anche Felicetta era destinata all’insegnamento, perché alla fine degli anni ’60 a Raffadali, in provincia di Agrigento, una ragazza che studiava sceglieva senza dubbio le scuole magistrali. In realtà, lei voleva fare la hostess e non la maestra, perché il suo sogno era di viaggiare per il mondo. L’occasione di andar via dalla Sicilia, non in aereo, ma in treno, arriva nel 1969 con il primo concorso per capostazione aperto alle donne.
«Decisi di partecipare, perché avevo voglia di lavorare, anche se mi ero già iscritta all’Università di lingue a Palermo – racconta Felicetta Maltese – . Mi misi a studiare e superai subito il concorso: prima di entrare in servizio però dovevamo fare un anno di formazione a Milano. Eravamo trecento, tutti giovani, ma le donne erano solo dieci».
Dopo la formazione Felicetta fu assegnata alla stazione di Premosello Chiovenda, vicino Domodossola, lontana da tutto e da tutti. «Mi dedicarono addirittura un articolo su un giornale locale, per la novità che rappresentava una capostazione di 19 anni e pure donna».
Poco dopo cominciarono le prime discriminazioni. «Ero giovane e non avevo ancora sviluppato una precisa coscienza di genere, ma mi rendevo conto che soprattutto i dirigenti più avanti con gli anni pensavano che le donne non fossero adatte a un lavoro operativo e di responsabilità, come quello di capostazione. Ci fu chi dichiarò apertamente “io le donne non le voglio”» prosegue, rammentando anche che, quando i treni passavano dalla sua stazione, la gente si affacciava al finestrino per vedere la capostazione donna, ma lei nascondeva dietro un sorriso il suo imbarazzo e proseguiva con competenza e determinazione il suo lavoro. «Alle colleghe di Milano, specialmente in occasione di scioperi o disservizi, urlavano di andare a fare la calza» ricorda Felicetta.
Dopo il trasferimento in Toscana, alla stazione di Chianciano-Chiusi, le cose cambiarono in meglio, ma gli atteggiamenti paternalistici o di sorpresa non sono mancati neppure in anni più recenti: «Alcuni colleghi accettavano di malavoglia un capo donna, ma io ho sempre evitato il conflitto, preferendo il lavoro di squadra». Una scelta che ha premiato la carriera di Felicetta, arrivata a dirigere il traffico dei treni dell’alta velocità diretti a Roma dalla stazione di Firenze.
A distanza di tempo, ha avuto qualche rimpianto per non aver fatto la hostess? «Per niente, sono stata fortunata con il mio lavoro, perché in stazione ero io a comandare. Se fossi diventata una hostess, non sarebbe successo».