La storia di Evelin e Locky, “schiavi” nel deserto

Il racconto di una sopravvissuta alla tratta degli esseri umani

Questa storia è un estratto dal libro della giornalista Irene Ciambezi “Non siamo in vendita. Schiave adolescenti lungo la rotta libica. Storie di sopravvissute” (Sempre Comunicazione).

Un racconto che ha come protagonista Evelin, una delle tante giovani donne vittime della tratta della prostituzione che, grazie all’aiuto della Comunità Giovanni Paolo XXIII, adesso è libera.

Una quotidiana attività di accoglienza e di tutela di queste giovani donne, che dal 20 maggio viene sostenuta dalla Fondazione Il Cuore si scioglie onlus nell’ambito della campagna di crowdfunding Pensati con il Cuore. I fondi raccolti saranno utilizzati per ospitarle in una casa famiglia e per avviare un percorso formativo-lavorativo in un laboratorio artigianale di sartoria e pelletteria.

La decisione di partire

Sabbia, cadaveri, fucili, mare, tempesta e ancora altri cadaveri. Questo è in breve il mio viaggio dell’orrore verso l’Europa. Ho lasciato il sud della Nigeria a 17 anni insieme al mio fidanzato. Entrambi ignari di cosa ci aspettasse al nord. Nella mia città era diventato tutto difficile per noi e per la mia famiglia. Nel quartiere dove vivevamo c’erano gruppi di giovani che non ci lasciavano tranquilli. Si trattava di gang che, combattendo tra loro, causavano morti e terrore tra la popolazione. Nelle loro guerre di fazione, hanno distrutto più volte anche il banco di frutta e verdura di mia madre. E non c’era mai nessuno a difenderla da quando papà era morto a causa della tubercolosi.

Ci sono tante gang criminali nel mio paese che hanno base nei campus universitari: alcune organizzano furti, altre rapiscono gli stranieri che lavorano nei giacimenti petroliferi, altre comprano e vendono armi dentro le nostre città per motivi politici.
Per questo ho deciso di lasciare Agbor e andare nell’Imo State, di dove è originaria la mia famiglia. Rimasi ad Orlu per un anno fino a che mia nonna non morì e poi il fratello del mio fidanzato ci consigliò di lasciare la città per dirigerci a Kano dove avremmo trovato facilmente lavoro.

Avevo passato la mia infanzia a seguire i miei fratelli più piccoli oppure a zappare e strappare erbacce, mentre le mie due sorelle maggiori avevano sempre lavorato con la mamma al mercato a vendere ortaggi e frutta che riuscivamo a coltivare nel nostro campo. Mamma se la cavava molto bene con loro. Ma nessuno di noi aveva potuto frequentare la scuola secondaria.(…)

L’inizio del viaggio

Quando ho compiuto 17 anni avevo in mente solo il mio fidanzato Locky, volevamo vivere insieme, avere una casa nostra, un lavoro tranquillo e avere dei figli. E di certo nel nord della Nigeria avremmo potuto anche trovare un lavoro e mandare i soldi ai nostri familiari per aiutarli. Partimmo con un sogno nella testa e una sorpresa che avevamo tenuta nascosta a tutti.

Arrivammo a Kano col pullman senza problemi, nonostante i pericoli per i cristiani. Da Agbor bisogna andare a Benin City e prendere il pullman per Abuja, la capitale, che prosegue verso nord, verso Kaduna e poi Kano. La strada è molto grande e in pratica attraversa la Nigeria dalla Regione del Delta del fiume Niger fino al nord. Mi hanno spiegato che sono circa 1.000 chilometri. Ci abbiamo impiegato 16 ore di viaggio. Pensavamo che Kano sarebbe stata la nostra destinazione finale e di trovare alla stazione il fratello del mio fidanzato, certi che col suo aiuto avremmo cercato subito un lavoro per entrambi. Invece non fu così.

La vecchia stazione degli autobus di Kano, che si chiama Tashar Kuka, era piena zeppa di migranti in partenza per il Niger. Ci venne incontro un uomo di colore che non parlava i nostri dialetti e il suo inglese era confuso. Forse era ghanese. Ripetè due volte i nostri nomi e poi ci consegnò due biglietti spingendoci in malo modo verso la fermata in cui saremmo dovuti salire sull’autobus diretto a Zinder.

Al confine c’erano molti poliziotti e le persone sugli autobus venivano controllate una ad una. La polizia fece scendere noi ed altre tre persone perché non avevamo il passaporto. Fino a quel momento non sapevamo nemmeno di averne bisogno. In Nigeria non è un documento che la gente conosce e solo in Italia ho scoperto che è un libretto con foto e dati personali che viene usato il tutto il mondo per viaggiare da uno stato all’altro. In Nigeria normalmente viaggiamo senza nessuna carta in mano. Molti di noi non hanno nemmeno mai chiesto un certificato di nascita e se sono nati in casa forse non sanno nemmeno quando sono nati. Per questo molti nigeriani danno la stessa data: le mamme è già tanto se ricordano l’anno di nascita dei propri figli.

Risalimmo tutti sullo stesso autobus, una volta attraversato il confine. Ci dissero che eravamo in Niger ma, non avendo documenti e non potendo proseguire, siamo stati costretti a continuare a piedi. Dopo alcuni chilometri ci raggiunse un’auto. L’autista ci disse che ci avrebbe portati nel posto dove avremmo incontrato il fratello di Locky. I nostri nomi erano registrati da questi uomini. Sapevano ogni percorso che dovevamo fare e con quale mezzo di trasporto. Era tutto organizzato per noi ma non capivamo che non sarebbe stato un viaggio di piacere.

Senza ritorno

Dopo diverse ore di viaggio, scendemmo dall’auto e qui incontrammo le tre persone che furono fatte scendere assieme a noi sull’autobus partito da Kano.
Il ragazzo che era con loro ci spiegò che non saremmo più tornati indietro poiché il fratello di Locky ci aveva venduti e dovevamo raggiungere i nostri proprietari.
Il mio fidanzato era fuori di sé e gridava come un ossesso ma l’uomo nigeriano che ci aveva portato fin lì gli diede un colpo di mazza nel ventre fortissimo e da quel momento capimmo che nessuno poteva reclamare. Quando sei venduto devi stare zitto. I tuoi diritti sono annullati di colpo. Come animali da vendere al mercato, colpiti e scioccati, proseguimmo il viaggio, in silenzio.
C’era un nigeriano che aveva il compito di accompagnare le ragazze al confine. Ragazze che, come noi, erano state vendute per farle poi prostituire una volta arrivate in Europa.

Era maggio ed ero incinta di 3 mesi. (…)

Abbiamo visto uomini e donne freddati con un colpo di fucile. E dovevamo tacere! Nei tempi di sosta, le milizie violentavano le donne più giovani. E dovevamo tacere! Se qualcuno moriva durante il viaggio per mancanza d’acqua e di cibo o per qualche malore, veniva lasciato in mezzo al deserto da solo, in pasto agli avvoltoi.
È frequente morire durante il viaggio; le condizioni sono precarie, viaggiavamo in tanti su questi furgoni scoperti, tenendoci stretti per paura di cadere. Il vento e la sabbia causavano il vomito e impedivano di respirare a molti di noi. Nessuno parlava per paura di essere ucciso. (…)

L’arrivo in Libia

Dopo il quarto posto di blocco arrivammo in Libia. Qui il nostro gruppo, che era ormai quasi tutto di donne – eravamo rimasti solo una ventina dei trenta alla partenza – è stato diviso.
Il mio fidanzato ed io siamo stati accompagnati in una casa isolata – non eravamo in una città – dove abbiamo incontrato davvero il fratello di Locky che ci aspettava da diverse settimane. Avevo il volto duro e sembrava quasi non conoscerci più. Come in un rituale di militare addestrato, ci spiegò senza cuore che ero stata venduta ed ero destinata al mondo della prostituzione.

(…) Carne della sua stessa carne, ormai irretito dalla mafia che gestisce il traffico di esseri umani, con freddezza continuava a spiegare che dovevo iniziare in Libia ad “esercitarmi” perché alla fine del viaggio avrei dovuto guadagnare 40.000 euro per pagare il debito. Non sapevo nemmeno di quanti naira si trattasse.
Fino a quel momento, durante il viaggio, nessuno aveva capito che ero incinta. Ora invece Locky era stato costretto a rivelarlo per salvare me e il bimbo che avevo nella pancia. Locky gli urlò che, se il problema erano i soldi, lui sarebbe stato disposto a lavorare anche per me.
Io avrei voluto telefonare a mia madre ma me lo impedivano: continuavano a dirmi che dovevo abortire e che, se avessi continuato ad oppormi, mi avrebbero sparato.
I due arabi allora portarono via il mio fidanzato mentre mi gridava le ultime raccomandazioni. Prima tra tutte di prendermi cura del nostro bambino e che un giorno sarebbe venuto a riprenderci.
Ho sentito Locky qualche volta per telefono in questi mesi. Non può usare facilmente il telefono perché è controllato. Mi ha raccontato che lavora per un uomo arabo che costruisce case a Tripoli. Lavora dodici, tredici ore al giorno, ma non vede mai i soldi che guadagna. Una parte vanno al fratello che continua ad arricchirsi facendo la spola tra Nigeria e Libia a scapito di tante vittime innocenti, una parte servono per ripagare il debito che ho contratto per il viaggio in Europa.
Da quel tragico giorno di agosto non l’ho più rivisto. Non ho fatto in tempo ad abbracciarlo, a baciarlo, a dirgli quanto lo amo. Non ho più potuto raccontargli di giorno in giorno come sta crescendo nostro figlio.

Quel giorno mi presero con la forza mentre piangevo disperata per la separazione da Locky, che mi aveva protetto e incoraggiato ad ogni chilometro lungo il nostro viaggio disperato. Viaggiai su un taxi fino a Saba e poi fino ad un villaggio che dista circa tre ore dalla città. L’autista era un uomo nigeriano della mia stessa regione: fu lui ad aiutarmi a lasciare la Libia due mesi dopo, impedendo a chiunque di avvicinarmi per abusare di me. (…).
Abitavo in una casa con altre otto ragazze, molto giovani, avranno avuto tra i sedici e i venti anni. Sembrava un vero e proprio bordello in cui queste tristissime vittime venivano iniziate alla vita di prostitute. Alcune tra loro, le più piccole, non avevano mai avuto rapporti sessuali e nessuno le doveva toccare perché – dicevano – erano destinate a uomini ricchi europei che avrebbero fatto guadagnare ai magnaccia tantissimi soldi se le ragazze erano vergini.

Una di loro mi raccontò che era partita perché la figlia di una vicina di casa le aveva promesso successo e guadagni lavorando come parrucchiera in Europa. Lei stessa ogni volta che tornava a Benin City mostrava una bellezza e una ricchezza inconfondibili, segno che al di là del mare la vita è facile e si trova lavoro subito. Invece, prima di partire per il viaggio, l’avevano prelevata e portata in campagna di notte da uno sciamano. Il native doctor nella nostra tradizione è molto importante e non si può contrastare quando dà inizio ad un rito voodoo. Anche a lei il baba-loa – si chiama così questo stregone nella magia nera tradizionale – aveva preso alcune parti intime, peli pubici, unghie dei piedi, e le aveva mescolate in un sacchetto pieno di polveri magiche con sangue di gallina. Poi, invocando gli spiriti maligni, aveva fatto fare il giuramento alla ragazza che avrebbe rispettato le regole della sua madame e non sarebbe mai scappata né avrebbe avvisato la polizia, altrimenti sarebbe morto qualcuno della sua famiglia o lei stessa sarebbe impazzita perdendo la memoria. Ad un’altra sua amica, il potere del voodoo sulla sua anima era stato invocato invece su una bambola di pezza piena di spilli e al suo interno riempita di sangue, peli e fotografie della giovane vittima.

Nella nostra stessa casa c’era una donna di circa trentacinque anni che aveva il compito di controllare le giovani e gestire i clienti. Quasi tutte le ragazze si prostituivano, ogni giorno, davanti ai nostri occhi con uomini diversi. Erano libici, del Gambia o di Toboko.
Dopo il primo mese in questa casa orribile, in cui eravamo sempre tutte insieme come animali in mezzo allo sporco – pidocchi e vermi intestinali invadevano ogni giorno qualcuno – con poco riso da mangiare e una volta a settimana un po’ di pesce, sono riuscita a contattare mia madre e a farmi inviare trecentomila naira con l’aiuto di quell’autista nigeriano che mi aveva portato in quella casa e salvato dalla prostituzione. Quei soldi mi sarebbero serviti per proseguire il mio viaggio evitandomi di abortire e prostituirmi. Mia madre aveva chiesto aiuto ad una sua sorella per poter raccimolare il denaro necessario perché io e il bambino sopravvivessimo. Il suo aiuto non lo dimenticherò mai. Quando riuscivo a telefonarle, fuori dalle orecchie indiscrete dei nostri trafficanti, mi supplicava di ritornare in Nigeria, ma l’autista me lo aveva sconsigliato. Era impossibile e troppo pericoloso. Non potevamo restare lì a lungo, né avrei potuto partorire in Libia aspettando che Locky pagasse il suo debito e il mio, perché era troppo pericoloso: sentivo le bombe e ci raccontavano delle persone che venivano uccise ogni giorno. Anche se eravamo quasi sempre chiuse in casa e lontano dalla città, un giorno di fine agosto, vicino al bosco dove eravamo nascosti, vidi arrivare dei militari arabi e sparare ad un ragazzo giovane. Lo abbiamo visto cadere a terra dopo che il proiettile era passato da una parte all’altra del cranio.

La fuga dalla Libia

Sarebbe stato più facile attraversare il mare per poi sbarcare in Europa. A metà settembre, l’uomo nigeriano che solo perché era del mio stesso paese si era preso cura di me, mi portò a Tripoli, dove rimasi per due settimane senza nulla. Dormivo nella foresta con altre mille persone; eravamo tutti in attesa di prendere il gommone. Una notte capitò che un gruppo di gambiani si misero a litigare con un gruppo di nigeriani e fu la fine! Fummo scoperti e, mentre la maggior parte di noi riuscì a scappare nascondendosi nella foresta, io e un’altra ventina di persone fummo presi dai militari i quali, picchiandoci, ci portarono in una prigione.

Tante volte di notte ricordo quei giorni traumatici. Sembravamo animali in gabbia, senza cibo. Ho visto tante persone essere prelevate dalla prigione e portate via per essere crudelmente torturate. Mi raccontavano che nelle prigioni le persone sono picchiate con la frusta, oppure con le spranghe, alcuni ci hanno raccontato di essere stati torturati con delle scosse elettriche. Io stessa, oltre ad essere violentata dai poliziotti nonostante fossi incinta, quando piangevo e mi ribellavo terrorizzata di perdere il mio bambino, venivo bruciata in diverse parti del corpo con la sigaretta. Per mia fortuna, l’uomo nigeriano di cui non sapevo nemmeno il nome, ma che era stato per me come un salvatore, venne a prendermi in prigione dopo una settimana.

Mi disse che dovevo continuare il mio viaggio e che avrei dovuto far finta di essere sposata con uno degli uomini che viaggiavano con me: un nigeriano alto e robusto che avrà avuto trentacinque anni. In questo modo, una volta arrivata in Italia, sarei stata certa di ricevere una casa. Mi aveva lasciato anche un numero di cellulare da chiamare quando fossi arrivata al di là del mare nel caso in cui ci avessero separati.

Alcuni arabi vennero a prendere i primi cento e ci incamminammo verso Zuara. Camminammo per circa un’ora e mezza prima di arrivare in quel posto vicino al mare dove poi prendemmo il gommone. Era notte e sembrava che quell’angolo di spiaggia fosse protetto dagli spiriti del mare perché tante ragazze come me potessero tornare libere in quell’Europa libera e ricca di cui si sentiva parlare nei nostri villaggi. Non avevo ormai più niente di mio: mi rimanevano solo una bottiglietta d’acqua e il mio cellulare.

Gonfiarono il gommone e in 150 vi salimmo. Erano seduti gli uni sugli altri. Avevo deciso di rimanere in piedi, aiutata dagli altri per non cadere, per evitare che schiacciassero me ed il mio bambino.

Era il 20 ottobre 2015, il mare era mosso e l’aria freddissima.
Rimanemmo due giorni in mare aperto senza cibo né acqua. Ci avevano detto che saremmo arrivati a Malta e che qualche pescatore ci avrebbe tratto in salvo. Ero terrorizzata perché il mare non l’avevo mai visto. (…)

Lo sbarco a Lampedusa

Ci soccorse la nave di Medici senza frontiere il 22 ottobre 2015. Ero sfinita e temevo di perdere il bimbo. Del nostro gruppo erano sopravvissuti alle onde e al vomito che disidrata solo un centinaio di persone.
Non capivo cosa stesse accadendo e che cosa ci dicevano i nostri soccorritori: parlavano a tratti in inglese e a tratti in italiano (una lingua che non avevo mai sentito prima). Sbarcammo a Lampedusa e portarono in un campo quelli tra noi che stavano bene, mentre chi era visibilmente ammalato veniva portato in ospedale e i morti coperti con un telo sulla costa.
Dal campo, dopo qualche giorno, ci fecero salire su un pullman diretto verso il nord. Io a quel tempo non capivo niente della lingua che si parla in Italia. Non avevo nemmeno mai sentito parlare di questo paese al sud dell’Europa. Sapevo solo che dovevo restare con quell’uomo robusto di cui non potevo nemmeno conoscere il nome.

Fui accolta prima in un grande centro di prima accoglienza che chiamano Hub e poi, siccome ero incinta, mi divisero dal gruppo. L’uomo nigeriano che non si era mai separato da me provò a spiegare che ero sua moglie, ma io ero talmente confusa che quando mi chiesero come si chiamava e quando ci eravamo sposati ovviamente rimasi imbambolata e muta.
Così mi portarono dopo tre giorni in una casa famiglia. Nel frattempo lui mi aveva procurato una sim card che dovevo tenere nascosta a chi ci dava ospitalità. Nella casa famiglia c’erano due donne molto gentili ad accogliermi, altre persone grandi e una ragazzina disabile allettata a cui mi sono poi affezionata tantissimo.
Prima di arrivarvi avevo già telefonato al numero che mi aveva lasciato il mio “salvatore” nigeriano. Era il pastore di una Chiesa pentecostale. Mi scriveva messaggi che mi tranquillizzavano. (…).
Rimasi nella casa famiglia solo un mese e poi, appena capii dove si trovava la stazione dei treni, visto che i miei connazionali mi avevano promesso che avrei avuto presto un permesso di soggiorno e un lavoro se non avessi parlato a nessuno della mia storia, scappai.
(…).

Quella sera in strada

In una città che era a due fermate di distanza, telefonai col telefono che avevo tenuto nascosto fino a quel momento e subito mi venne a prendere il pastore, un uomo sulla quarantina molto gentile e sempre sorridente.
Viveva con sua moglie e due bimbi piccoli. Furono molto gentili quel giorno, mi regalarono vestiti, preparammo insieme il meat pie, dei pani ripieni di carne, patate e carote, buonissimi! Il giorno dopo la donna mi diede dei vestiti e mi disse di prepararmi, e mi portò sulla strada, in una zona industriale buia dove passavano tanti camionisti. Era freddo e avevo tanto schifo dentro di me. Quella sera mentre mi passavano davanti tanti clienti, molti anziani, molti che non volevano usare il “guanto”, mi decisi a telefonare al mio fidanzato e a dirgli tutta la verità. Lui mi suggerì di scappare e di chiedere aiuto alla casa famiglia.

La nascita di Blessed e l’inizio di una vita nuova

Così feci, e per questo posso dirmi sopravvissuta due volte. Telefonai a Francesca e nel pieno della notte mi venne a prendere in quella città fredda del nord (… ). Al di sopra di tutto c’era mio figlio, la sua salute e il suo futuro. E quando è nato Blessed – veramente Benedetto da Dio – tenendolo stretto tra le braccia e guardandolo negli occhi, ho avuto la conferma che avevo preso la decisione giusta!

In casa famiglia ho ricominciato finalmente a fidarmi di chi veramente merita fiducia(…).
Francesca e Marta mi hanno aiutato anche a capire che potevo fidarmi in Italia della polizia – perché non è corrotta come nel mio Paese – e raccontare la mia storia, denunciando tutta la catena di trafficanti, sfruttatori e intermediari che avrebbero voluto arricchirsi a mio danno. Piano piano ho accettato anche di consegnare il mio cellulare e di essere più protetta nei mesi in cui la polizia ha portato avanti le sue indagini a partire dai nomi e dai numeri di telefono che avevo consegnato, ottenendo così un permesso di soggiorno non per asilo politico ma per motivi umanitari, come tutte le donne che come me ammettono di essere vittime di tratta e, se ne trovano il coraggio, denunciano chi le ha usate nel mercato del sesso.

(g.c. Irene Ciambezi)

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