Se un tempo erano le religioni, cioè “la parola di Dio”, a dettare tempi e modi dell’alimentazione umana, oggi è il cibo a imporsi come oggetto di venerazione, attraverso un culto della tavola che va ben oltre la semplice nutrizione. Tanto da trasformarsi persino in ossessione, nelle due forme speculari della cibomania e della cibofobia. Mass media e mondo social sono lo strumento di questa nuova religione.
Di questo e di molto altro parla Mangiare come Dio comanda (Einaudi), saggio scritto a quattro mani, da Elisabetta Moro e Marino Niola, antropologi e docenti all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
Dalla parola di Dio ai social network: la parabola del cibo può essere sintetizzata così?
Moro – Parte di un libro della Bibbia, il Levitico, è dedicata a quello che gli ebrei possono e non possono mangiare: sono elencate le specie vegetali e animali permesse e quelle proibite, nonché i comportamenti in relazione al cibo corretti e quelli sbagliati. Ciò che è pulito diventa etico e poi legge per gli antichi ebrei, e per molti di loro lo è ancora ed è indicato dalla parola kosher.
Niola – Un tempo erano le sacre scritture a dare le regole, oggi sono Facebook, Instagram e la tv.
Sono altrettanto stringenti anche le regole dell’Islam?
Moro – Alcune sure del Corano dividono i cibi in buoni, che si possono mangiare (halal), e in proibiti (haram), perché sporchi. Un bravo islamico segue ancora oggi questi dettami
Niola – Nei secoli i precetti hanno influenzato il modo di mangiare e la formazione del gusto, che è il prodotto di una selezione culturale. Il nostro atteggiamento verso il cibo è il prodotto di tutto ciò.
Quali i divieti del cristianesimo?
Moro – Il cristianesimo non ha divieti, né tabù alimentari, si può mangiare tutto. Gli unici precetti cristiani riguardano la quantità, e infatti è suggerita la temperanza. Nel periodo quaresimale questa prende la forma dell’astinenza dalle carni e del digiuno.
Niola – Nelle sue Lettere San Paolo scriveva che tutto quello che si trova sui banchi del mercato va bene per i cristiani, senza fare distinzioni né sui cibi né su chi li mangia: da qui il concetto di cibo come condivisione.
E le altre grandi religioni cosa prescrivono?
Moro – Nell’induismo, che è professato da 1 miliardo e 400 milioni di persone, tutto si gioca intorno al mangiare o non mangiare i bovini. Un recente studio ha dimostrato che oggi è considerato un buon induista chi non mangia carne di mucca, a prescindere dal credo religioso, per cui il comportamento alimentare vale di più di tutto il resto.
Niola – In questo libro riflettiamo anche su convinzioni comuni che, sbagliando, non vengono mai messe in discussione, come nel caso dei due grandi padri del vegetarianesimo, Buddha e Pitagora, che probabilmente vegetariani non erano. Intanto, Pitagora faceva distinzioni fra animali e salvaguardava solo i collaboratori dell’uomo come i cavalli e le mucche. Mentre per quanto riguarda Buddha il suo vegetarianesimo si basa su un’interpretazione dubbia di testi in sanscrito che lo definiscono ghiotto della “delizia del maiale”.
Perché le religioni impongono divieti sul cibo?
Moro – Le condizioni ambientali hanno inizialmente avuto un ruolo: ad esempio, il divieto di mangiare il maiale per ebrei e musulmani si spiega con il fatto che il suo allevamento mal si conciliava con le loro abitudini nomadi in zone desertiche. Ma i precetti si sono conservati nel tempo anche quando le condizioni ambientali sono cambiate.
Niola – Ancora oggi queste indicazioni, che si perdono indietro nei tempi, sono osservate scrupolosamente da molte persone. Il fattore simbolico-religioso si unisce a quello ambientale-materiale e si rafforzano a vicenda.
Perché nel libro affermate che oggi il cibo è una religione?
Moro – Il cibo è diventato centrale nelle esistenze, tanto da condizionarci, proprio come una religione, con i suoi dei e i suoi demoni.
Niola – Oscilliamo fra la cibomania e la cibofobia. La prima ci porta al pensiero unico del cibo di qualità, all’esasperazione della ricerca delle eccellenze, a guardare programmi televisivi con chef blasonati, tentando di imitarli, mentre i format che ruotano intorno alla cucina si sono moltiplicati, occupando i palinsesti televisivi.
E la cibofobia, che cos’è?
Moro – La paura che il cibo diventi un veleno, così nascono patologie vere e proprie come l’ortoressia, una malattia sociale che indica l’ossessione per l’appetito corretto. Molti ne soffrononel mondo occidentale.
Niola – Le persone si convincono che certi alimenti siano nocivi e li eliminano dalla dieta: così il panorama alimentare si riduce moltissimo, insieme all’apporto di nutrienti. Le conseguenze sono sulla salute, ma anche sociali, perché alcune prese di posizione sulle scelte alimentari risultano divisive, mentre il cibo è fatto per unire.
Anche la contrapposizione fra vegani e onnivori è potenzialmente pericolosa?
Moro – In questo caso le reciproche accuse, di uccidere gli animali da un lato, di essere intransigenti dall’altra, possono portare a fratture realmente divisive.
Niola – Rifiutando un determinato cibo, si rifiutano anche le persone che lo mangiano. Negli Stati Uniti l’ortoressia è una causa frequente di divorzio:
Quale ruolo giocano i media di massa e i social?
Moro – Il cibo ha riempito gli spazi che un tempo occupavano la politica o altre forme associative, oggi le persone sono per lo più sole e nel cibo trovano un placebo o un succedaneo.
Niola – Il cibo è diventato un pensiero dominante di cui occuparsi e molti format televisivi contribuiscono ad alimentarlo: alcuni sono innocui, in fondo insegnano semplicemente a cucinare, ma quando tv e social veicolano contenuti sensibili, sostituendosi alla comunità scientifica, come accaduto con alcune indagini giornalistiche, allora diventano causa di allarme e possono fare molti danni.