Infodemia è una “brutta” parola che fa pensare a una malattia – infatti è nata nel periodo della pandemia – e che è utile per raccontare un fenomeno di cui ancora oggi siamo vittime. Il vocabolario Treccani la spiega così: «Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili». La conseguenza è che, mentre si pensa di saperne di più, in realtà siamo meno informati. Secondo l’Accademia della Crusca l’infodemia può avere inoltre «effetti potenzialmente pericolosi sul piano delle reazioni e dei comportamenti sociali».
Vittime e carnefici
Carlo Sorrentino, sociologo dell’Università di Firenze, spiega così il fenomeno: «Oggi siamo bombardati di notizie in qualsiasi momento: ai media tradizionali, come i giornali, la televisione e la radio, si sono aggiunti il web e i social network, sempre a portata di smartphone. Non abbiamo né il tempo né la lucidità per valutare quanto ci arriva». Complice dell’indigestione informativa, il meccanismo dell’algoritmo che, “spiando” le nostre ricerche sul web, ci ripropone, automaticamente e ossessivamente, notizie sugli stessi argomenti e con la stessa interpretazione. Siamo immersi dunque in bolle informative che ci confermano quello in cui già crediamo: è così che si alimentano fenomeni come il terrapiattismo o le scie chimiche.
Ma non siamo solo vittime: contribuiamo al caos informativo ogni volta che ripostiamo, cioè ripubblichiamo una notizia. E spesso lo facciamo d’impulso, senza verificare contenuti e fonti. Già nel 2018 una ricerca del Massachusetts Institute of Technology aveva messo in luce come le bufale tocchino in particolar modo social media come Facebook e Twitter (ora X), e come in quest’ultimo si propaghino molto più velocemente delle notizie vere, proprio a causa della condivisione da parte degli utenti.
Secondo Sorrentino, inoltre, «nell’era pre-smartphone, il tempo dedicato per informarci era limitato a momenti ben precisi della giornata, quando leggevamo con calma il quotidiano o guardavamo il telegiornale, invece oggi le notizie arrivano in un flusso continuo, e ne fruiamo in maniera destrutturata, mentre stiamo facendo altro, senza avere la giusta concentrazione per riflettere su cosa può essere vero e cosa non lo è».
Il ritorno della propaganda
In questa condizione si diventa più facilmente vittime della misinformazione, altra “brutta” parola che deriva dall’inglese e che indica la diffusione involontaria di false notizie, ma anche della disinformazione, quando dietro c’è una volontà precisa di passare un messaggio falso. La comunicazione diretta e disintermediata è anche l’humus che favorisce la fioritura della propaganda. La pratica sempre più diffusa dei politici, italiani e non, di sottrarsi alle domande dei giornalisti, comunicando ai propri sostenitori direttamente attraverso i social media, accresce il fenomeno di un’informazione “partigiana” e non obiettiva.
«Oggi come ai tempi della seconda guerra mondiale assistiamo a forme di propaganda. Però, a differenza di quanto avveniva negli anni ‘40, almeno in Europa, abbiamo gli anticorpi democratici per difenderci» spiega Adriano Fabris, che insegna Etica della comunicazione all’Università di Pisa. In questo contesto i mediatori, cioè le agenzie giornalistiche, i quotidiani su carta e on line, le televisioni, «devono farsi carico del loro ruolo nel riportare correttamente i fatti, analizzando le fonti, secondo i principi della deontologia giornalistica, ma anche autodotandosi di un’etica propria, come tipico della tradizione dei media anglosassoni, che sull’accuratezza della notizia basano la propria credibilità».
Esempi virtuosi
Su questa falsariga hanno costruito il loro operato alcuni siti di informazione, particolarmente apprezzati per il modo di raccontare le notizie. Luca Sofri, fondatore di “Il Post”, quotidiano online nato nel 2010, racconta: «Quando siamo nati volevamo proporre un modello informativo alternativo a quello tradizionale italiano. Pur avendo una linea editoriale con posizioni dichiaratamente progressiste, cerchiamo di raccontare le cose in modo che le persone si facciano una propria idea dei fatti, attraverso un’analisi accurata delle fonti e un racconto chiaro ed essenziale». Rifuggendo anche da titoli “ad effetto” che attirano pubblico, ma creano un circolo vizioso «che le testate giornalistiche dovrebbero interrompere – prosegue Sofri -. Ad esempio nel caso del terremoto di inizio aprile a New York, invece di intitolare l’articolo Paura a New York abbiamo scelto Sisma 4,8 gradi a New York». Più scarno, ma ben più ricco di informazioni e obiettivo.
Sulla considerazione che il web e i social possano diventare un’opportunità per migliorare la qualità dell’informazione è d’accordo anche Matthew Caruana Galizia, figlio della giornalista Daphne uccisa nel 2017 perché sul suo blog aveva denunciato i traffici illeciti di alcuni ministri del governo maltese: «Quando mia madre aprì il blog “Running commentary”, attirò subito l’attenzione delle persone per il modo nuovo in cui comunicava e ovviamente per le cose che scriveva – ha dichiarato a marzo scorso sul palco fiorentino di “Voices”, prima edizione dell’evento itinerante sulla comunicazione organizzato dall’Istituto Universitario Europeo -. Credo che il web e anche i social network siano importanti canali di comunicazione per raccontare la verità e per il giornalismo investigativo».
Come gestire le informazioni
Cosa dovremmo fare allora per “guarire” dall’infodemia e gestire in maniera proficua la mole di notizie da cui siamo sommersi? Sorrentino suggerisce di «ritagliarsi nel corso della giornata uno spazio da dedicare alla lettura e all’informazione, scegliere testate qualificate e, se ci sono dubbi, rivolgersi anche a quei siti che hanno la missione di fare debunking», cioè smascherare le bufale che girano in rete.
Per Fabris oltre all’attività regolatoria, da applicarsi a chiunque diffonda contenuti in rete, influencer compresi, «utile non tanto per le sanzioni, che rischiano di essere poco tempestive ed efficaci, ma perché ci ricorda cosa è bene fare e cosa no, ancor più importante è la responsabilizzazione degli utenti digitali attraverso una formazione, che cominci dai bambini fino ad arrivare ai nonni, che li renda maggiormente consapevoli nell’uso dei media e capaci di distinguere se una notizia è attendibile o no». In fondo dipende anche da noi e da un nostro “like” cosa circola in rete.
Avvertenze per l’uso dei media
- Ritagliarsi un momento dedicato alla lettura delle notizie
- Non condividere notizie senza averne verificato la veridicità
- Diffidare dai titoli a effetto di molti siti web