

Trama
Un romanzo struggente che può fare per la Palestina ciò che il “Cacciatore di aquiloni” ha fatto per l’Afghanistan. Racconta con sensibilità e pacatezza la storia di quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la nascita dello stato di Israele e a vivere la triste condizione di “senza patria”. Attraverso la voce di Amal, la brillante nipotina del patriarca della famiglia Abulheja, viviamo l’abbandono della casa dei suoi antenati di ‘Ain Hod, nel 1948, per il campo profughi di Jenin. Assistiamo alle drammatiche vicende dei suoi due fratelli, costretti a diventare nemici: il primo rapito da neonato e diventato un soldato israeliano, il secondo che invece consacra la sua esistenza alla causa palestinese.
E, in parallelo, si snoda la storia di Amal: l’infanzia, gli amori, i lutti, il matrimonio, la maternità e, infine, il suo bisogno di condividere questa storia con la figlia, per preservare il suo più grande amore. La storia della Palestina, intrecciata alle vicende di una famiglia che diventa simbolo delle famiglie palestinesi, si snoda nell’arco di quasi sessant’anni, attraverso gli episodi che hanno segnato la nascita di uno stato e la fine di un altro.
In primo piano c’è la tragedia dell’esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, la vita nei campi profughi, condannati a sopravvivere in attesa di una svolta. L’autrice non cerca i colpevoli tra gli israeliani, racconta la storia di tante vittime capaci di andare avanti solo grazie all’amore.


La citazione degna di nota
Ho sempre trovato difficile non commuovermi alla vista di Gerusalemme, anche quando la odiavo – e Dio sa quanto l’ho odiata, per il suo immenso costo di vite umane. Ma la sua visione, da lontano o da dentro il labirinto delle mura, mi trasmette sempre un senso di dolcezza. Ogni centimetro di questa città racchiude i segreti di civiltà antiche, le cui morti e tradizioni sono impresse nelle sue viscere e nelle macerie che la circondano. I glorificati e i condannati hanno lasciato le loro impronte sulla sua sabbia. È stata conquistata, distrutta e ricostruita così tante volte che le pietre sembrano possedere una vita donata loro dagli eterni bilanci di preghiere e sangue. Eppure, in qualche modo, Gerusalemme trasmette umiltà. In me suscita un innato senso di familiarità – l’indubbia, irrefutabile sicurezza palestinese di appartenere a questa terra. Mi possiede, indipendentemente da chi la conquista, perché il suo suolo è il custode delle mie radici, delle ossa dei miei antenati. Perché conosce i desideri segreti che hanno infiammato i letti delle mie progenitrici. Perché io sono il frutto naturale del suo passato ardente e burrascoso. Sono figlia di questa terra, e Gerusalemme mi rassicura di questo titolo inalienabile molto più degli atti di proprietà ingialliti, dei registri catastali ottomani, delle chiavi di ferro delle nostre case rubate.


Le nostre riflessioni
Fin da subito, ci siamo tutte rese conto che questo libro dà emozioni forti, dilanianti, che prendono allo stomaco e che, al tempo stesso, fanno pensare intensamente. La lettura, a un certo punto, passa in secondo piano perché ciò che viene narrato si aggrappa così forte a noi da innescare quasi delle crisi e delle riflessioni ampie, umane, profonde ed esistenziali nel più puro senso della parola. Lo abbiamo vissuto visceralmente, di pancia, e ha creato l’occasione per riflettere profondamente sia sulla situazione narrata, sia sui fatti odierni.
Abbiamo apprezzato molto il modo di scrivere dell’autrice, così autentico, immersivo e vicino a noi: non è un resoconto storico, e se lo fosse stato crediamo che lo avremmo percepito in maniera totalmente diversa rispetto a quanto abbiamo fatto, quasi più lontana da noi; essendo, invece, così emotivamente prossimo, ha colpito duro. Anche lo stesso attaccamento alla terra, alla cultura, alle radici e all’amore verso le stesse ci ha prese profondamente, e ci ha raccontato tanto di come siano vissuti questi concetti dalle popolazioni.
Facendo riferimento al non essere un mero resoconto storico, abbiamo sottolineato come il fatto di essere una microstoria, ovvero il racconto delle vicende di una famiglia che vive sulla propria pelle gli accadimenti, sia un enorme punto a favore di questo libro, lo avvicina ulteriormente al lettore e rende ancora più palpabile il divario esistente fra chi vive personalmente questi fatti giorno dopo giorno e i resoconti, più lontani emotivamente. Questa è una storia di vita, oltre che la storia di una famiglia. Ci ha fatto pensare che dovremmo ascoltare molto di più le persone e le loro storie, e che la “grande” storia è formata da tante piccolissime microstorie che spesso non accogliamo.
A proposito di questo, abbiamo colto l’evoluzione del rapporto madre-figlia che, nel corso del tempo, porta quest’ultima a ripensare alla figura materna e a capire meglio il loro rapporto, a capire meglio sua madre e le sue scelte.
Crediamo che questo libro parli di speranza su più fronti e con più interpretazioni, andando anche in base al sentire di ognuna di noi: la speranza in un futuro migliore, la speranza rabbiosa di fronte a queste vite spezzate, la speranza che di fronte alle brutture e agli orrori non si abbatte mai e continua a lottare.
Ogni parola scritta e impressa l’abbiamo avvertita come una pietra, e nessuna di esse è messa a caso, è soppesata, ed è anche per questo che il colpo che questo libro ci dà è così forte e brutale.


Lo consigliamo a...
A chi vuole leggere la storia di una famiglia che affronta i peggiori orrori, ma che combatte.
A chi vuole leggere una storia di speranza.
A chi vuole leggere un libro da cui scaturiranno riflessioni importanti.
A chi vuole leggere una microstoria in una storia più grande.
A chi vuole leggere un libro che, nonostante sia stato pubblicato da tanto, è ancora attuale.


Le parole chiave del libro
Speranza
riflessione
storia personale
orrori
guerra
famiglia
futuro
rabbia
vita
emozioni