Dopo le presentazioni e i saluti, una calda voce amichevole, chiede subito di darle del “Tu”. Siamo davanti entrambe ad un tè bollente, anche se a molti chilometri di distanza l’una dall’altra. Ottavia Piccolo, che non ha certo bisogno di presentazioni, inizia a rispondere alle domande, con naturalezza e gioia, e la spigliatezza e tranquillità con cui questa grande attrice parla, affoga tutta la mia iniziale emozione.
Che cosa è il tuo mestiere e in che cosa consiste?
Mi sono chiesta tante volte in cosa consista il mio mestiere e mi sono data diverse risposte: sicuramente la prima che mi viene in mente è quella di raccontare delle storie, un’altra potrebbe essere raccontare gli esseri umani ad altri esseri umani e un’altra ancora è farsi voler bene. Penso che una delle spinte a mettersi su di un palcoscenico o davanti ad una macchina da presa sia farsi amare.
Perché e come hai cominciato?
Ho cominciato facendo una specie di audizione per interpretare il ruolo di Helen Keller in Anna dei miracoli: questo succedeva esattamente 60 anni fa. Mia mamma aveva letto su di un giornale che cercavano una bambina per fare questo spettacolo con Anna Proclemer protagonista e Luigi Squarzina regista e ci siamo presentate al Teatro Quirino. Allora noi vivevamo a Roma e sono stata scelta. Non credo perché avessi delle doti particolari, all’inizio soprattutto, ma per un fatto fisico, avevo non ancora 11 anni ma sembravo molto più piccola, e in teoria la bambina, protagonista della storia, avrebbe dovuto avere circa 6 anni, ma una bambina attrice di 6 anni in scena sarebbe stata difficile da dirigere. La storia si riferisce ad un fatto realmente accaduto e racconta di Helen Keller e della sua maestra, Annie Sullivan, di questa bambina cieca e sordomuta che alla fine dell’’800 riesce a recuperare non tanto la voce e la parola, perché questo era quasi impossibile, ma comunque il senso delle parole diventando poi una scrittrice e attivista per i diritti delle persone portatrici di handicap, battendosi per tutta la vita, per la diffusione della lingua dei segni. Infatti quasi tutti gli istituti per ciechi sono intitolati a Helen Keller.
Abbiamo fatto una tournée di sette mesi, io naturalmente viaggiavo con la mia mamma e ho girato per quel primo anno in tutti i teatri d’Italia. I teatri sono per me luoghi importati, sono tutti casa mia, e poi sono luoghi che hanno un odore, un suono e che ogni volta mi rivelano un messaggio diverso. Mi sento perfettamente in linea con il vostro Casateatro quindi.
Per me il luogo teatro è fondamentale, non solo per il mestiere che faccio ma proprio come spazio, come struttura. Da sessanta anni a questa parte ho visto tanti teatri, li ho visti cambiare, perché molti sono stati ristrutturati e restaurati alcuni bene alcuni male… e sì in alcuni hanno fatto dei gran guai. Però io appena arrivavo in una città, andavo subito in teatro. Come prima cosa giravo tutto lo spazio, sopra, sotto in lungo e in largo, ho visto luoghi e anfratti dei teatri più sperduti in giro per l’Italia e ci ho trovato delle cose bellissime. Avrei voluto portare via un sacco di cose, meno male non sono una ladra! Però ecco: qualche vecchia sedia di teatro, un attaccapanni che magari buttavano via… quelli li ho presi e me li sono conservati, un posacenere… quante storie…
Vi racconto una curiosità. Io posseggo una sedia del teatro Quirino che mi è stata regalata del direttore, quella sedia per me è molto importante, perché durante una delle audizioni di Anna dei miracoli mi hanno spiegato che dovevo essere una bambina cieca e sordomuta e mi hanno bendata. Mi hanno fatto camminare sul palcoscenico fino a che sono arrivata davanti ad un oggetto che non sapevo cosa fosse e mi ricordo di averlo esaminato con le mani, come mi sembrava dovesse fare una persona cieca che non vedendo utilizza il tatto in maniera molto accurata. Questa sedia era proprio l’oggetto che dovevo “esaminare” e riconoscere, cominciai a toccarla dai braccioli passai allo schienale, che aveva tutte quelle impunture fatte da delle borchiettine per tenere l’imbottitura.
Fu proprio passando le mani su questa sorta di chiodini con attenzione e cura che riconobbi la sedia e lo feci capire a chi mi osservava. Penso che questa sia una delle ragioni che ha colpito di più il regista che poi mi ha scelta per lo spettacolo. Oltre a quella di aver battuto una bella capocciata nel foyer del teatro Quirino, ma essendo una bambina alla quale era stato detto di interpretare una persona muta, non ho urlato, non ho fatto un fiato. E quindi ti dico non ero geniale, ma ero una bambina sveglia ecco quello sì, forse più sveglia di altre.
In cosa è cambiato il teatro oggi?
Nella sua essenza il teatro non è cambiato, è sempre “quella cosa lì” che, come dicevo prima, racconta agli uomini sentimenti, emozioni e storie. Sono cambiate certe forme, c’è stato negli anni un teatro di ricerca che ha fatto cose diverse, c’è stato il boom dei musical che adesso sono spariti di nuovo dalla circolazione, come se non fossero mai esistiti, sono passati di moda forse.
Le forme del teatro sono tante: negli anni ‘70 per esempio si diceva il teatro impegnato o addirittura il teatro politico. Il teatro è sempre politico, parla dell’oggi attraverso i grandi classici o attraverso le intuizioni di scrittrici e scrittori, di poeti e poetesse. Il teatro parla sempre del potere sia quando Shakespeare scriveva il suo Enrico V e parlava dei regnanti della sua epoca, sia quando oggi parliamo dei nostri governanti. Il teatro, alla fine dei giochi, parla sempre delle stesse cose, del rapporto con la fede, con la divinità, con il potere. Parla del rapporto fra le persone, dei sentimenti, dell’amore, dell’odio: tutte cose che sono sempre uguali, da quando esiste l’essere umano.
Con telefonino, senza telefonino, con la ruota senza la ruota, con il motore a scoppio, sempre di quello parliamo, siamo sempre noi, uomini siamo rimasti, quelle bestie su due gambe che ragionano. Questo in un certo senso, è ed è sempre stato per me il teatro. Organizzativamente certo sono cambiate tante cose, c’è adesso maggiore difficoltà per le giovani compagnie, per i giovani gruppi a trovare degli spazi, perché è vero che l’offerta è tantissima, ma poi tutto questo pubblico che viene a teatro non è che ci sia.
In questi giorni, forse anche in occasione del fatto che ho compiuto 60 anni di teatro, sto facendo il trasloco del mio studio quindi sto riguardando tutte le fotografie, vecchi ricordi, incartamenti, articoli. Mi sono accorta anche che negli anni ‘60-‘70, quando lavoravo con Strehler, Visconti e altri, che sia sui quotidiani sia sulle riviste, lo spazio che era dato al teatro era enorme rispetto ad ora. Adesso se escono le critiche, al massimo si leggono le presentazioni che sono più delle comunicazioni pubblicitarie. Ci sono i siti internet dei teatri, che sono una bella vetrina, ma la carta stampata nel passato era piena di commenti e di riflessioni sul teatro, forse perché il teatro era una delle componenti fondamentali della vita sociale del paese.
Ho avuto diversi contatti con la Francia perché ci ho girato numerosi film: lì il mestiere dell’attore è un mestiere ritenuto serio. In Italia c’è la tendenza a pensare che una persona che fa teatro o cinema si occupi come di un hobby, che in fondo lo potrebbe fare chiunque. Adesso poi con le nuove tecniche e i nuovi mezzi che abbiamo, sembra che tutti possano fare i registi: abbiamo il telefonino e uno pensa che sia uguale che avere una macchina da presa. Assurdo!. Però è questo il concetto, tanto è vero che soprattutto in questo periodo il fatto di aver chiuso cinema e teatri non è che viene considerato una mancanza.
Noi siamo rimasti che l’attore non è un mestiere…come la famosa barzelletta “che lavoro fai?” e l’altro risponde “l’attore” “no ma dico realmente che mestiere fai”?. Purtroppo nella realtà molti, non solo attori e attrici ma anche amministratrici, organizzatrici in qualsiasi ramo del nostro lavoro, fanno spesso due lavori. Cioè chi riesce a vivere del proprio lavoro è un privilegiato. Quando dicono che noi maestranze del teatro siamo precari per una vita, non è vero non siamo precari, perché i precari possono poi passare ad avere un lavoro fisso, noi mai. Anche quando riusciamo ad entrare in una grande organizzazione o in un teatro stabile non è detto che si riesca ad essere assunti con un contratto fisso.
Ma tutto questo per dire che appunto, negli altri Paesi il fare l’attore è considerato una cosa seria. Non è colpa della televisione come molti pensano, è proprio un fatto di mentalità.
Qual è lo spettacolo che ti viene subito in mente? Non da protagonista/attrice ma da spettatrice?
Io sono una che appena possibile va a teatro, perché mi piace, voglio sapere e vedere tutto ciò che gira nei palcoscenici, vado a vedere spettacoli belli anche spettacoli brutti per capire cosa non bisogna fare. Diciamo che uno dei primi che mi ricordo è uno spettacolo di Dario Fo, visto a Milano, dal titolo Settimo: ruba un po’ meno, avevo 15 anni non ho capito quasi nulla, era uno spettacolo veramente politico. È buffo che mi sia venuto in mente questo, me ne ero completamente dimenticata. E poi uno spettacolo che ho goduto e mi è piaciuto veramente tanto è stato Lehman Trilogy con la regia di Luca Ronconi, e il testo di Stefano Massini.
Quando pensi al foyer a cosa pensi?
Il foyer è un luogo dove ci si incontra, si parla, ci si confronta. Però tu prova a dire la parola foyer fuori, alle persone che non frequentano o lavorano in teatro, non la conosce nessuno. Curioso no, che l’ingresso del teatro sia una parola quasi sconosciuta ai più. Per me invece è un posto bellissimo, anche in certi piccoli teatri in cui il foyer non c’è, è una porta di ingresso e appena appena un corridoio. Io mi immagino la gente che arriva ed è emozionata pensando a quello che va a vedere, che vuole essere sorpresa e dopo, alla fine dello spettacolo, i commenti, la gente che si confronta sulle emozioni e i pensieri che sono stati suscitati dalla visione. Mi piacerebbe che ogni volta ci fosse nel foyer una grande animazione, come se veramente il teatro smuovesse le teste che è quello che mi piacerebbe fare, sempre, come interprete.
Quale è la parola che preferisci del teatro?
Soffitta. Detta anche graticcia, quando nei vecchi teatri c’è una graticcia lassù a svariati metri d’altezza, cerco sempre di poter andare a curiosare, perché spesso nelle soffitte dei teatri e nei locali adiacenti si trovano dei tesori. Oggetti di scena, vecchie poltrone, scenografie in disuso, vecchi programmi di teatro, sì ancora adesso la graticcia, dopo sessanta anni di carriera è il mio luogo preferito.
Concludo in poche parole. Penso che l’attore debba essere vero con il massimo della finzione perché questo è il teatro, e citando Karl Krauss “artista è chi sa trasformare una soluzione in enigma”.
(intervista a cura di Elisa Bonini, Murmuris)