Parole che nascono, si trasformano, muoiono o, come le nuvole di De André, a volte ritornano. La lingua è viva e, come un impasto in continuo fermento, cresce e si rimodella su usi e costumi, mode e politica. Per capire quanto è veloce il cambiamento, pensiamo alle parole della nonna in cucina, a partire dal più banale dei vocaboli pietanza, di cui abbiamo dimenticato che, in origine, indicava il cibo che i conventi offrivano, per pietà appunto, ai poveri.
Specchio dei tempi
Come passano in disuso certe ricette – le farfalle al salmone, le pennette alla vodka, il pesce finto o l’aspic di verdure, tanto per citare le mitiche degli anni ‘80 -, nella lista dell’archeologia gastronomica finiscono anche parole che qualche over 50 di certo ricorderà: sbaiaffa, per un pranzo abbondante, tornagusto, per uno stuzzichino, ananasso, per il più moderno ananas, ma anche macco, per il purè di fave. Pochi chiamano guantiera il vassoio per i dolci, e nessuno serve più un gustolo, come si chiamava un tempo l’antipasto. Mentre la merenduola nella madia è diventata la merendina in dispensa, chi offrirebbe oggi un cordiale come liquorino dolce tonificante?
Le parole a tavola sono specchio del tempo, come spiega Giovanna Frosini, linguista e accademica della Crusca, nel recente libro Le parole del cibo (Carocci editore), scritto a quattro mani con Sergio Lubello, nell’ambito del progetto di ricerca di interesse nazionale AtLiTeG: «La lingua del cibo ha a che fare con un’attività primaria e vitale e, per questo, più di altri linguaggi settoriali, assorbe gli eventi della società e porta in sé la nostra storia, di invasioni, povertà e guerre, di migrazioni e della recente globalizzazione. Il risultato è una lingua stratificata che contiene, oltre al latino, parole germaniche, francesi, arabe e turche, anche in termini insospettabili e ormai italianissimi: dall’arabo arrivano zucchero e lasagna, dal normanno presumibilmente il raviolo; dal francese burro, besciamella e, addirittura, ragù, mentre dal ceppo germanico vengono zuppa e brodo, che è proprio la prima ricetta del volume di Pellegrino Artusi».
Colonizzazioni vecchie e nuove
Un mix che rende la lingua italiana del cibo rete e mosaico, in cui restano intrappolati anche i fatti della storia: tripoline, bengasini e assabesi, lingue di Menelik, erbette del negus o torta eritrea nel ricettario di Ada Boni del 1929 sono, ad esempio, le tracce impresse dalla politica coloniale del neonato Regno d’Italia e poi del Ventennio fascista, alle prese con la campagna del grano, l’invenzione di un’alimentazione autarchica e le sue poco edificanti imprese coloniali.
Una lingua, quella del nostro cibo, viva più che mai, che ancora oggi continua a dare e prendere a ritmo accelerato, come spiega Frosini: «Al di là di ogni imposizione, l’ingresso di parole inedite fa parte proprio del meccanismo di una lingua viva e, così, la nostra ha accolto nuovi stili e tradizioni alimentari: dal cibo di strada al fast food, con hamburger, chips e soft drinks, a mode come il brunch e il finger food, a cibi da tutto il mondo, quali sushi, falafel, tacos, cous cous o tzatziki. Ma, proprio per l’eccellente qualità del nostro cibo, l’italiano ha una forte capacità di diffusione verso l’estero, con parole di fama mondiale: pasta, spaghetti, espresso, caffè, tiramisù, rucola, mortadella, prosecco e, una più di tutte, pizza, che è la parola più esportata al mondo e che ha antichissime origini ma che, così come la intendiamo oggi, nasce nel 1889 a Napoli, in occasione della visita della regina Margherita alla quale fu dedicato questo piatto bianco, rosso e verde dal valore fortemente identitario. Laddove ci sono, quindi, anziché dimenticarle adottiamo le nostre parole che dimostrano una forza espansiva ineguagliabile: insomma, invece di un coffee break, concedetevi una pausa caffè!».
Piccolo glossario di parole dimenticate
– Companatico tutto ciò che si accompagna con il pane
– Cuccuma caffettiera
– Desco tavola
– Desinare pranzare
– Merendare fare merenda
– Minuzzolo briciola
– Mondare sbucciare
– Tascapane borsa per trasportare i viveri