Tempo di castagne

Prelibatezze toscane della tradizione. In autunno sui banchi dei supermercati Coop.fi

Non dite semplicemente pane dei poveri. Nonostante per secoli abbia sfamato interi paesi di montagna, oggi la castagna è un frutto ricercato, finito pure nei ristoranti blasonati. Non solo caldarroste, ballotte, marron glacé e castagnaccio. C’è chi con le castagne secche cucina una ricca minestra in brodo, altri esaltano il sapore della farina impastando ravioli e gnocchi, i più golosi preparano sfiziose frittelle con uvetta e pinoli. Perché la Toscana, dalle Apuane giù fino all’Amiata, è terra di castagneti e castagne, molte delle quali possono vantare riconoscimenti come Igp e Dop.

In autunno arrivano sui banchi ortofrutta dei supermercati Coop.fi grazie a micro-filiere locali: piccoli e medi produttori, distribuiti nelle principali zone montane della regione, che riforniscono i punti vendita più vicini.

Il marrone dei Medici

Una fra le tipologie più conosciute è il marrone del Mugello. Si distingue dalle altre castagne per la buccia color camoscio e la polpa bianca e friabile, che non “allappa”. Sono raccolti a mano dai lavoratori di circa 170 imprese agricole e portati all’azienda Lunica di Vicchio che li seleziona e confeziona per i Coop.fi.

«Conosciuti anche come marroni fiorentini, sono un’eredità dei Medici, che secoli fa scelsero queste varietà per nutrire le popolazioni mugellane – spiega Pierluca Angeli, alla guida di Lunica –. Gli alberi di cui oggi raccogliamo i frutti sono vecchi due o tre secoli, e non sono sottoposti ad alcun tipo di trattamento. È un prodotto del tutto naturale». Dal Monte Amiata proviene invece il marrone buono, com’è chiamato dalla gente del posto, di dimensioni medio-grande, da mangiare bollito o arrostito nella classica padella bucherellata.

Farina di castagne

Sui banchi ortofrutta, anche la farina di castagne, nutriente e alla base di tante bontà di stagione. Famosa è quella di neccio della Garfagnana (in garfagnino il neccio altro non è che il castagno). Prelibata è la farina di Caprese Michelangelo, piccolo borgo nell’aretino celebre per i marroni Dop, dove 140 produttori curano i castagneti come se fossero il giardino di casa. La tradizione vuole che le castagne siano fatte essiccare su graticci nei metati, piccoli edifici riscaldati dal fuoco di legna di castagno, e poi macinate a pietra. Succede anche sull’Appennino pistoiese. «È la natura a dettare i tempi della nostra attività – racconta Patrizia Giardi che, nell’azienda fondata insieme al compagno nella Val d’Orsigna, produce ogni anno 300 quintali di farina del “Mulino di Casa Colonna” -. Quando cadono i ricci a terra selezioniamo a mano le castagne, poi le lasciamo seccare per 45 giorni nei metati, dove vengono girate costantemente, giorno e notte. In seguito, togliamo la buccia e i residui della pellicola che avvolge il frutto e le portiamo al mulino». Un lavoro certosino, ma il risultato è un gusto dolce e inconfondibile.

Modi di dire

Perché si dice prendere in castagna?

Cosa hanno a che fare le castagne con il sorprendere qualcuno mentre sta sbagliando? È tutta una questione linguistica. Il modo di dire “prendere in castagna” deriva dall’espressione – oggi in disuso – “prendere in marrone”, che in alcune zone dell’Italia centro-meridionale significava cogliere in errore. La nascita di questa espressione è tutt’oggi dibattuta, ma l’ipotesi più accreditata ne indica l’origine in un termine del latino medievale: marro, che voleva dire appunto errore grossolano.

Questo articolo è un’anteprima del prossimo numero di novembre dell’Informatore cartaceo, in distribuzione dal 30 ottobre.

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