Fast fashion, la “moda usa e getta”: il prezzo di ciò che indossiamo

Dall’impatto sull’ambiente al lavoro. Il modello alternativo? Circolarità

Basta un click per accaparrarsi una maglietta a 3 euro, per un paio di pantaloni all’ultimo grido si scende sotto i 10, mentre è sufficiente qualche spicciolo in più per un paio di scarpe. Ma alla fine chi paga il conto? Si chiama fast fashion, moda veloce che insegue le tendenze sfornando a più non posso capi a prezzi stracciati: nell’armadio durano poco, in una logica estremizzata di “usa e getta”.

Una corsa forsennata a ideare nuovi stimoli di consumo. Stando ai calcoli della società di ricerche tedesca Statista, questo mercato durante il 2024 ha raggiunto nel mondo i 130 miliardi di euro ed entro il 2027 varrà 177 miliardi, con un fatturato raddoppiato rispetto al 2021. In gran parte si tratta di marchi internazionali, con produzioni estere a basso costo (Cina, Bangladesh, India), tuttavia esempi di questo genere si trovano pure in casa nostra. La convenienza però può nascondere lati oscuri.

Impatto sull’ambiente

L’Agenzia europea dell’ambiente ha analizzato l’impatto del tessile, prendendo come riferimento il 2020. In quell’anno l’intero comparto ha rappresentato la terza fonte di degrado delle risorse idriche e del suolo. Per creare indumenti e scarpe per ogni singolo cittadino dell’Ue si stima che siano stati consumati 9 metri cubi di acqua, 400 metri quadri di terreno e 391 chili di materie prime, con l’emissione di 270 chili di anidride carbonica.

La stessa Agenzia indica che questa industria è responsabile di circa un quinto dell’inquinamento globale dell’acqua potabile, sia per la tintura e la finitura, sia per il rilascio di microplastiche a seguito del lavaggio dei tessuti sintetici.

A fronte di tutto ciò, circa un quarto dei vestiti invenduti ogni anno viene buttato via. Senza contare che le fibre plastiche a buon mercato come nylon, acrilico e poliestere compongono in media il 60% di quello che indossiamo e non sono sempre riciclabili. La “moda veloce” estremizza questo circolo vizioso.

Consumo a tutti costi

«Il fast fashion si basa sull’analisi delle abitudini dei consumatori, attraverso algoritmi e dati raccolti su cellulari e computer – spiega Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia – e, in base alle tendenze, le aziende sviluppano costantemente nuove proposte. Così il capo si mette poche volte e si getta. In Europa il 78% dei vestiti usati finisce in discarica e viene incenerito».

I prezzi bassi possono celare inoltre alti costi sociali, anche con la delocalizzazione in Paesi asiatici. L’Indice della schiavitù globale 2023 (Global Slavery Index) pubblicato dalla Fondazione internazionale per i diritti umani Walk Free, piazza al secondo posto l’industria della moda per il numero di persone costrette a operare in luoghi poco sicuri e in assenza di tutele sindacali.

Il fenomeno in Italia e in Toscana

Un fenomeno dal quale non è immune l’Italia, come emerso nell’ottobre scorso con il caso degli addetti di pelletteria picchiati e minacciati nel pratese durante un picchetto di protesta, indetto per denunciare turni massacranti.

Di «sfruttamento endemico di manodopera spesso immigrata e in condizione di ricattabilità nelle filiere del lusso» parla Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna “Abiti Puliti”, rete internazionale di organizzazioni impegnate per il miglioramento delle condizioni lavorative nell’abbigliamento. «Il problema qui non sono le mele marce, ma un sistema interconnesso che si avvale di lavoro povero e insicuro al servizio dei grandi marchi che impongono condizioni commerciali capestro – afferma -. L’economia regolare convive con quella irregolare, anche nella stessa fabbrica, cui appalta il lavoro per contenere i costi».

Secondo le stime della Cgil Toscana, nella nostra regione le ditte del cosiddetto “pronto-moda”, con un ciclo produttivo più veloce, sono circa il 70% di tutto il distretto tessile, per grossomodo 20mila addetti.

«Nel settore moda toscano ci sono imprese che rispettano regole e diritti – dice Fabio Berni, della segreteria regionale del sindacato -; esiste però una parte del sistema, quando la filiera della fornitura si allunga con la catena dei subappalti a cascata, come nel settore del tessile-abbigliamento, dove aumenta il rischio dell’esistenza di punti oscuri e sfruttamento.

Come Cgil abbiamo avviato varie iniziative al riguardo e, al tavolo regionale sul comparto, abbiamo proposto di accorciare i livelli di fornitura rendendo tracciabili le filiere, per avere più tutele, e richiesto maggiori controlli interforze da parte di Asl, Inps e Ispettorato del Lavoro».

Armadio circolare

Quali possono essere quindi le vie alternative? «Un modello di economia circolare, con capi di qualità che durano a lungo e possono essere recuperati, può garantire sia l’aspetto ambientale sia la salvaguardia dei livelli occupazionali, senza fare sconti sui diritti, grazie allo sviluppo di realtà che riusano le fibre – aggiunge Berni -. In Toscana esistono progetti interessanti, ad esempio l’impianto per la selezione e il riciclo dei rifiuti tessili a Prato, in via di costruzione».

I primi passi in Europa

In Europa si stanno muovendo i primi importanti passi, rileva Deborah Lucchetti, grazie all’approvazione lo scorso aprile della direttiva sul Dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità, che avrà i suoi effetti dal 2026.

«Finalmente impone alle aziende obblighi e responsabilità per garantire il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente lungo la catena di fornitura, quindi anche presso i fornitori – chiarisce -. Ha diversi punti deboli, certo, ad esempio si applica solo alle grandi imprese e non considera soglie inferiori per i settori ad alto rischio come il tessile, ma questi problemi possono essere superati in fase di recepimento da parte del governo, come abbiamo indicato in un nostro recente rapporto con le raccomandazioni per una trasposizione ambiziosa in Italia».

Un altro tassello è il regolamento europeo Ecodesign pubblicato a giugno, che entrerà in vigore dal 2026. «Stabilisce che in tutti i settori di consumo, non soltanto nell’abbigliamento, i prodotti siano durevoli, riparabili ed evitino la presenza di sostanze problematiche per la circolarità – fa notare Alessandro Giannì -. Introduce fra l’altro il divieto di distruggere i resi. Adesso speriamo che pure la revisione della direttiva europea sui rifiuti, tuttora in corso, incentivi il recupero del tessile post consumo. Anche i cittadini devono fare la loro parte, rifiutando un modello di consumo distruttivo: se non cambiamo mentalità, un vestito pagato poco oggi, domani ci costerà molto caro per i suoi effetti sull’ambiente».

Quanto costa un reso online?

Greenpeace, insieme alla trasmissione Report di Rai 3, ha tracciato i resi, nascondendo dei localizzatori in 24 vestiti di “moda veloce” ordinati online. I grandi portali di commercio web spesso offrono la possibilità di restituire la merce a costo zero, per incentivare l’acquisto. In media questi pacchi, in quasi due mesi, hanno percorso oltre 4500 chilometri. Sono stati ceduti e a loro volta resi decine di volte. Alla conclusione della ricerca il 58% dei prodotti non era ancora stato rivenduto.

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