Togliamoci dalla testa che le microplastiche siano un argomento semplice. Anzitutto perché, parola di esperti, la sostenibilità al 100% non è possibile, perlomeno nel settore della moda.
«Non illudiamoci che riciclando le bottiglie di Pet si sia risolto il problema. Nella trasformazione si consumano energie e comunque il poliestere è sempre plastica: basta fare una lavatrice e le microplastiche finiscono nell’acqua di scarico e nei nostri mari» spiega Marina Savarese, docente al Polimoda di Firenze e imprenditrice del marchio sostenibile Sartoria letteraria. Con lo pseudonimo @morgatta, di queste tematiche parla nel suo blog #sfashion e nell’omonimo libro.
Ecco, appunto, le microplastiche. Gli esperti ne erano al corrente da un bel po’, gli ecologisti anche, ma i consumatori che si sono nutriti di decenni di moda poliestere fast fashion (la cosiddetta moda usa e getta) hanno dovuto scoprire da una trasmissione tv Rai che i nostri oceani sono ormai infestati da microscopici residui di plastica. Per evitare il disastro ambientale basterebbe smettere di produrre valanghe di abiti di plastica e usare sacchetti speciali (come il Guppy friend, in cui inserire i propri indumenti sintetici prima di metterli in lavatrice: l’acqua passa, le microplastiche restano all’interno) o Cora ball (sorta di palline che usano lo stesso sistema di filtraggio dei coralli) quando si fanno le lavatrici.
Attenzione alle materie prime
Il punto, però, è che non basta la buona volontà del consumatore che presta attenzione a come lavare il poliestere. Bisognerebbe che a monte la produzione di abiti e accessori tornasse a privilegiare materie prime sostenibili e che si interrompesse la catena infernale della sovrapproduzione di massa. Come è stato fatto per le casse in polistirolo o per piatti, bicchieri e posate di plastica usa e getta.
«Se un marchio produce volumi spropositati, è anche questo un problema – spiega Savarese – Dove va a finire l’invenduto? Come viene smaltito?». Lo scorso anno fece scandalo la scoperta che alcuni marchi del lusso bruciassero letteralmente gli abiti che rimanevano loro in magazzino.
Nel report di Greenpeace Fashion at the crossroad (La moda a un incrocio) già nel 2017 si faceva leva sul fatto che il riuso fosse infinitamente migliore del riciclo. Ovvero tornare ad acquistare abiti usati, ripristinare la pratica dello scambio, recuperare con piccoli accorgimenti i capi che non ci sembrano più indossabili. C’è chi lo fa da sempre, chi invece ha abbandonato questa pratica sedotto dal fast fashion. Senza contare che, sempre Greenpeace, una decina di anni fa, lanciò la campagna “Detox” per sensibilizzare i grandi marchi contro l’uso eccessivo della chimica. In tanti, anche fra i grandi marchi, hanno aderito, ma se si pensa che se ne sta seriamente parlando da vent’anni, si capisce come il processo sia davvero lento.
Dagli anni ‘70 a oggi
Le pioniere della ecosensibilizzazione del settore moda furono Katharine Hamnett, Lynda Grose, insegnante e designer, e Safia Minney, fondatrice di People Tree. Correvano gli anni ‘90. Ancora prima, nei ‘70, i freakettoni proponevano una moda di recupero totale senza alcun occhio al design.
«Solo negli ultimi anni – spiega ancora Marina Savarese, che al Polimoda insegna Visual merchandising e per metà dell’anno vive ad Ibiza, dove vende le sue creazioni – nelle scuole si parla di recupero dei tessuti con cui realizzare capi belli, capaci di sedurre i consumatori».
In sintesi, la catena parte dall’imprenditore, che deve essere spinto a produrre meno, ma con tessuti di qualità, dall’altra il consumatore deve abituarsi a leggere le etichette, esigere prodotti di qualità, comprare meno e meglio, oppure noleggiare i capi più costosi. Esistono ormai servizi specializzati in questo settore, da Vic, very important choice a Drex Code. Ci sono anche applicazioni, come Good on you, che verificano l’origine e la sostenibilità del capo che si sta per acquistare. Informarsi conviene. Al portafoglio e all’ambiente.