La storia di Mario
Mario Piccioli nasce il 2 giugno 1926 a Firenze. Commesso in una pizzicheria, è residente nel quartiere di Borgo San Frediano. La mattina dell’8 marzo 1944 viene arrestato in piazza Santa Maria Novella da un agente in borghese della Guardia nazionale Repubblicana. Era andato a cercare sua madre, operaia in una fabbrica, arrestata la sera prima a seguito di uno sciopero e detenuta alle Scuole Leopoldine.
Trova la madre, che sarà poi rilasciata. Mario, invece, viene caricato su un vagone merci e deportato nel campo di concentramento di Mauthausen, dove arriva l’11 marzo 1944. Sarà classificato prigioniero politico con il numero 57344. Non ha ancora 18 anni.
Piccioli non conosce una parola di tedesco, ma impara presto a riconoscere la pronuncia del suo numero di matricola, perché se non si risponde lesti all’appello sono botte.
Il 25 marzo 1944 viene trasferito nel campo di Ebensee, dove lavora ogni giorno come manovale per costruire le gallerie. Il lavoro è molto duro e il vitto scarso: la mattina un ramaiolo di acqua nera, a “desinare” un altro ramaiolo con qualche pezzetto di rapa (se si è fortunati), la sera un altro ramaiolo di acqua nera, un pezzetto di pane e un poco di margarina. Grazie ad un “fortunato attacco di pidocchi” riesce a tornare a Mauthausen. Anche lì è difficile, ma così riesce a tenersi salva la vita. In seguito andrà a Linz III dove lavorerà agli altiforni.
Il 5 maggio 1945 viene liberato dall’esercito americano. Al momento della sua liberazione pesa 31 chili. Arriva a Firenze, dopo un viaggio fortunoso, il 23 giugno 1945.
Nel gennaio 2009 Mario diventa presidente di Aned Firenze, Associazione Nazionale ex deportati ai campi di sterminio nazisti. Negli ultimi anni della sua vita si dedica in maniera instancabile a portare avanti la sua testimonianza tra i giovani, nelle scuole e nelle Università. Muore nell’agosto del 2010.
La nipote Laura
Oggi è la nipote Laura a portare avanti la Memoria di Mario. Laura ha 33 anni ed è una delle più giovani componenti del Consiglio nazionale di Aned. È entrata nell’associazione nel settembre 2010, subito dopo la morte dello zio. Da allora, ogni anno, accompagna centinaia di studenti nei viaggi nei campi di ex sterminio nazista e racconta la storia di suo zio, affinché anche loro se ne facciano testimoni.
L’ingresso in Aned non è stato semplice perché sente addosso il peso di portare avanti una testimonianza importante. I primi viaggi insieme ai ragazzi senza suo zio sono stati difficili.
Per non tradirne la Memoria nel raccontare cerca di utilizzare le sue stesse espressioni. Lo zio, ad esempio, una volta arrivato a Mauthausen viene derubato dei pochi valori, denudato, messo in fila insieme agli altri, e portato in una stanza dove tre uomini a turno gli radono i capelli, lo depilano e disinfettano, in attesa delle docce. Mario si rivolgeva loro chiamandoli “delinguenti”, per sottolineare che per lui erano solo “personaggi” e non persone. “Delinguenti” chiama anche i due uomini che gli consegnano il paio di mutande e la camicia (usati) e gli zoccoli, e poi lo portano alla baracca.
Quali sono le domande più ricorrenti che ti fanno gli studenti?
La domanda più comune è “Come è possibile che tutto questo sia accaduto?” ed è anche la domanda più difficile a cui dare risposta. L’altra domanda è “Ma come è possibile che tutti sapessero ma nessuno è intervenuto?”. Paradossalmente, i fatti che stanno accadendo negli ultimi anni in Italia e in Europa mi aiutano a rispondere.
Cerco di riportare i ragazzi all’oggi e chiedo loro: e oggi cosa sta succedendo? E oggi noi come siamo attivi? Come possiamo puntare il dito verso le popolazioni di allora, ma al tempo stesso restare ad osservare e guardare cosa ci capita intorno senza far niente, senza prendere posizione? Portando il tema all’oggi nei ragazzi scatta una riflessione maggiore. Questo del resto è l’obiettivo dei Viaggi delle Memoria. Non solo vogliamo solo far vedere ai ragazzi i luoghi dove si è svolto l’orrore nazista e fascista, ma lasciare loro un messaggio, che vada la di là del semplice “parliamone affinché questo non accada mai più”.
Qual è il cambiamento maggiore che noti in loro al ritorno dal viaggio?
Ci è capitato di ricevere lettere da parte dei genitori dei ragazzi che ci raccontano stupiti di vedere un cambiamento nel ragazzo nel modo di approcciarsi alla vita, iniziano magari ad interessarsi a tematiche a cui fino ad allora non si erano interessati, guardano la vita con occhi diversi. Prendere posizione davanti ad una situazione è un segnale di crescita.
Quale messaggio lasci loro?
Il primo è un messaggio di speranza, perché se mio zio ce l’ha fatta, ce la possiamo fare tutti. Nei momenti più difficili il fatto di avere avuto questa sua testimonianza mi ha dato grande forza. Il secondo è quello di farsi sempre portavoce di pace e di accettare l’altro, e battersi affinché i diritti e i principi fondamentali del rispetto e della dignità dell’uomo siano rispettati. Coloro che hanno vissuto la deportazione ci hanno insegnato cosa vuol dire avere tenacia e ci hanno insegnato ad avere degli ideali e degli obiettivi. Se riuscissimo realmente a vivere la nostra quotidianità con occhi diversi, cercando di conoscere, imparare e capire prima di generalizzare, probabilmente la nostra sarebbe una società migliore, dove il rispetto viene prima dell’ignoranza e della prepotenza, dove l’uguaglianza e la libertà sono valori che appartengono a tutti.
“Come è meraviglioso che non vi sia bisogno di aspettare un singolo attimo prima di iniziare a migliorare il mondo” (dal diario di Anna Frank)