Nel 1994 il filosofo Hans Magnus Enzensberger, per descrivere il nuovo disordine mondiale creatosi dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, usò l’espressione «guerra civile molecolare».
Le sue tesi – contenute nel libro Prospettive sulla guerra civile – furono molto criticate: «Sono gli individui, e non i gruppi – diceva Enzensberger – che ora si fanno una guerra permanente per sopravvivere al caos». Molte certezze erano venute meno, il mondo diviso in due poli era finito, i partiti e le categorie del Novecento erano tramontate.
Dopo l’11 settembre e le guerre in Afghanistan e in Iraq, arrivò poi il tempo dei camion presi a noleggio e scagliati contro la folla. A Nizza, a Berlino. E così la guerra diventò asimmetrica, combattuta contro Charlie Hebdo, sulle spiagge della Tunisia, con nemici terrificanti – come l’Isis che voleva issare la propria bandiera sul Vaticano – capaci di agire collettivamente e individualmente. Oggi è papa Francesco ad avere l’audacia intellettuale di definire quella in corso una «Terza guerra mondiale». Ma dove, perché e da chi è fatta questa nuova guerra glo- bale che ha un aspetto tutto diverso dalle due precedenti?
Un Atlante per ricordare
Lo racconta bene e con puntualità il nuovo Atlante delle guerre e dei conflitti nel Mondo pubblicato dalla casa editrice Terra Nuova, la stessa dell’omonima rivista, come accade da undici anni. Si tratta di un atlante ragionato capace di raccontarci lo stato delle guerre nel pianeta.
Fermiamoci un momento a pensare. Sappiamo che un anno fa la Russia ha dichiarato guerra all’Ucraina, ci ricordiamo che le cose in Medioriente non vanno bene, ma ormai è così da sempre, e che anche in Asia, in Africa e in America Latina c’è qual- che Paese tormentato. Tutto qui? Purtroppo no. Il quadro è spaventoso e molto più drammaticamente definito delle nostre percezioni. Dalla guerra permanente in Somalia al Ciad, al Sud Sudan, alla Libia, al Niger, per passare a quanto sta accadendo in Iran, alla crisi umanitaria in Afghanistan e Siria dove la popolazione sta letteralmente morendo di fame, fino a quello che stanno subendo i curdi da parte di Turchia e – ancora – Iran. Ci sono alcuni casi emblematici, spaventosi e totalmente dimenticati allo stesso tempo.
La tragedia del Tigrai
Due esempi (forse tre). Il primo riguarda l’immane tragedia del Tigrai. Siamo in Africa, e stiamo parlando della guerra civile scoppiata nel novembre 2020 fra le autorità regionali tigrine e il governo centrale etiope del premier Abiy Ahmed.
Solo pochi numeri: in due anni qui ci sono stati più di 800mila vittime e 2,5 milioni di sfollati. Nel silenzio e nella rimozione totale del resto del mondo. Questione di “vicinanza” geografica o di non coinvolgimento del nostro Stato-nazione o dell’Europa? L’Alto commissario Ue per gli Affari esteri Joseph Borrell ha recentemente dichiarato: «Giustamente condanniamo quello che sta accadendo in Ucraina, ma quanto sta succedendo in Etiopia è terribile. Le cifre dicono che sono state uccise tra le 600 e le 800mila persone. E la maggior parte di loro è morta non in combattimento, ma per la carestia, per il taglio degli aiuti umanitari, dell’elettricità e di ogni tipo di servizio pubblico».
È Francesco Strazzari – politologo, professore ordinario di relazioni internazionali della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa – a parlare di «una guerra lontana dalla nostra attenzione. La tregua in atto adesso è estremamente labile. Le autorità di Addis Abeba si sono recate in Tigrai, ma tutto lascia presupporre che la situazione possa precipitare di nuovo da un momento all’altro».
L’accordo del 2 novembre siglato in Sud Africa dovrà fare i conti con massacri, stupri e saccheggi, soprattutto nelle aree rurali, che continuano a perpetrarsi nel nord dell’Etiopia. Reggerà un accordo che si basa su un’emergenza umanitaria che coinvolge milioni di sfollati, decine di migliaia di bambini colpiti da malnutrizione e malati senza cure, e un elenco interminabile di crimini di guerra? Sappiamo solo che l’Onu si è impegnata a indagare con una commissione indipendente.
In Asia
E poi? E poi Strazzari racconta di quanto sta capitando da anni alle popolazioni Rohingya, musulmani che vivono in Myanmar (ex Birmania) al confine con il Bangladesh. «Le immagini che vedo in questi giorni sono agghiaccianti – dice Strazzari – stanno morendo a centinaia». Nel 2017, dopo gli scontri e le violenze da parte dell’esercito birmano, nel giro di poche settimane circa 730mila Rohingya furono costretti a lasciare le loro case per cercare rifugio nel vicino Bangladesh. Migliaia di loro morirono durante la distruzione dei villaggi perpetrata dai militari. I quasi 600mila Rohingya rimasti nello Stato birmano del Rakhine sono oggi soggetti a continue violenze e sono confinati in villaggi per sfollati senza accesso ai bisogni primari. Ancora oggi cercano tutti i modi per salvarsi la vita. Scappano e muoiono scappando.
Si chiama guerra? Molecolare, asimmetrica, globale? Si chiamano conflitti minori o marginali? «Trovo tutto questo scandaloso – ci racconta Costanza Hermanin, Research fellow all’Istituto Universitario Europeo e professoressa al Collegio d’Europa -. Sto parlando dello Yemen, della Siria… Ci occupiamo soltanto dei Paesi che ci interessano. E i Paesi che ci interessano sono quelli che hanno a disposizione le risorse energetiche a costi a noi accessibili per mantenere il nostro sistema economico e il nostro stile di vita. Così le altre guerre diventano poco interessanti. E anche un reporter che propone un servizio su una delle mille guerre dimenticate si sente dire che al pubblico non interessa».
Prossima fermata: Balcani
Come accade senza requie dal 15 giugno del 1389, data della battaglia di Kosovo Poljie nella Piana dei Merli, ancora una volta l’attenzione va rivolta al confine tra la Serbia e il Kosovo. Il Kosovo ha chiuso il principale valico di frontiera con la Serbia nei pressi della città di Podujevo. Prima militanti serbi avevano bloccato l’accesso dal lato serbo del confine. Ci sono barricate dei mi- litanti serbi lungo le strade che portano ai valichi di Brnjak e Jarinje, nel nord del Kosovo. Le proteste sono scoppiate dopo l’arresto di un serbo, ex poliziotto kosovaro, che secondo le autorità di Pristina avrebbe guidato attacchi contro funzionari della commissione elettorale.
Va ricordato che la Serbia non ha mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo e ne rivendica il territorio che è a maggioranza albanese. Gli Usa e l’Unione Europea hanno chiesto all’Onu un intervento immediato. La Russia ha fatto sapere che è – come da sempre – schierata con la Serbia. Una polveriera che non esaurisce le polveri da quasi settecento anni. E allora, le scintille che stiamo osservando daranno fuoco a un’altra guerra, ancora alle porte di casa, ancora non degna della nostra attenzione, ancora in cerca di un nome nuovo?