La giovane scrittrice Giulia Caminito con il suo libro “L’acqua del lago non è mai dolce” (ed. Bompiani) è la vincitrice del Premio Campiello 2021, giunto alla 59esima edizione. Premiata ieri 4 settembre all’Arsenale di Venezia, ha dedicato il suo premio a tutte le donne perché “possano avere la possibilità di leggere e scrivere ovunque”.
Qui riproponiamo il testo inedito scritto in esclusiva da Giulia Caminito per la nostra rivista “Informatore” nel marzo 2021, pubblicato poi, sempre lo scorso marzo, anche sull’Informatore online.
Buona lettura !
Scrivere o non scrivere ? ( di Giulia Caminito)
Era il marzo del 2020, il mondo stava cambiando, il trauma collettivo era appena iniziato, molte persone erano in ospedale a lottare per sopravvivere, altre chiuse in casa e affacciate ai balconi a guardare le città deserte, le vie di sempre ormai vuote, gli angoli e i vicoli abbandonati.
Una sottrazione, quella dei corpi e della vita, che ci aggrediva, la sentivamo addosso, questa distanza, questo non-esserci.
Ad aprile sul “New York Times” usciva il primo di una serie di articoli dedicati alla scrittura.
Sopravvivere all’ansia e all’angoscia generate dalla pandemia attraverso l’atto più semplice e più rivoluzionario allo stesso tempo: scrivere. La giornalista Natalie Proulx indicava dodici tipi di scrittura per aiutarci a impiegare il tempo dell’attesa, del disagio e dell’apprensione in modo creativo, nel senso proprio di generativo e produttivo. Lo lessi quando uscì e non feci subito caso a un dettaglio, che oggi invece mi torna in mente. Tra le dodici possibili scritture suggerite non vi era la voce: «Cominciare un romanzo sulla pandemia». Si consigliavano i diari personali, le narrazioni della quotidianità, la registrazione delle attività giornaliere, le recensioni di film, le lettere ai giornali per commentare le notizie, scrivere saggi o articoli, scrivere e illustrare vignette comiche, revisionare ciò che era rimasto fermo nel cassetto per troppo tempo e che ora poteva essere completato. Non erano previsti i romanzi, nessuno era invitato a iniziare una narrazione sulla pandemia.
Nel corso dei mesi questa mancanza è diventata un argomento di dibattito: quando cominceremo a parlare di questa pandemia nei romanzi? Arriverà il momento per i nomi noti della narrativa di confrontarsi con il Covid-19, oppure no?
Intanto guardiamo a cosa è accaduto dopo la scorsa pandemia che ci ha toccati, la Spagnola nel 1918. Quanto di quella pandemia è rimasto nei romanzi del Novecento italiano? Molto poco. Sulla Spagnola, che fece in Italia più morti della prima guerra mondiale, si è scritto quasi nulla. Domandiamocelo infatti: ci viene in mente un titolo che abbia raggiunto una certa popolarità e che sia rimasto negli anni come riferimento?
I motivi sono molti, primo fra tutti il fatto che la Spagnola ha colpito il mondo fra le due guerre, e quelle guerre sono state il drammatico nutrimento di moltissima letteratura italiana e non solo. Due eventi storici che hanno segnato e affondato il secolo, tanto da stravolgere anche la letteratura. Ancora oggi, i giovani della mia generazione se devono scrivere di Storia recente guardano alle due guerre mondiali e soprattutto alla Resistenza, col suo portato eroico ed epico capace di raccogliere un vasto immaginario.
In più, mentre la Spagnola colpiva non si parlava della Spagnola, la quale prende il nome dal primo Paese che sulla stampa scrisse della febbre che stava ammazzando migliaia (e poi milioni) di persone in tutto il mondo, questo perché non soggetta alla censura di guerra (la Spagna era rimasta neutrale). In poche parole, l’epidemia si chiama così a causa della libertà di stampa e non perché iniziò davvero in Spagna. C’era la guerra e la guerra aveva la priorità, come ci insegnò già Manzoni parlando della peste. Perché la guerra ha a che fare con il potere, con i soldi, ovviamente, ma anche perché la guerra è visibile, i fucili lo sono, le bombe lo sono, le trincee lo sono e così gli aerei, le ferite, le granate, gli eserciti, i berretti, gli stivali e le lettere dal fronte. Mentre la malattia diventa reale solo quando ti ha già colpito e per il resto del tempo non sai mai dove sia e come difenderti.
È la prima volta che la mia generazione (di chi è italiano e ha 30 anni negli anni ‘20 di questo secolo) si trova a essere protagonista di un evento storico mondiale, vasto e prolungato. È infatti la durata ciò che per la prima volta viviamo nel nostro quotidiano: qualcosa che è iniziato quasi un anno fa e sta continuando, uno stato d’emergenza che non dura il giorno di un terremoto o di un attentato terroristico, ma si espande e non si sa fino a dove, fino a quando.
La scrittura dovrà per forza farsi carico di questa pandemia, come ha fatto per tutti i momenti della storia dell’umanità, ma chissà quando lo farà.
Penso infatti che la narrazione, la finzione, la creazione di una storia abbiano bisogno di tempo, debbano guardare a un arco temporale da poter analizzare, sezionare, toccare e palpare, in cui cercare il proprio racconto.
Solo la posa di questi mesi (o anni) saprà lasciare il sapore giusto, la giusta consistenza. La presa diretta sugli eventi storici appartiene alla cronaca e alle notizie, alla saggistica al massimo. La scrittura di finzione è lenta, ci mette tanto tempo ad appropriarsi del reale, deve poterlo masticare, ruminare e tenere in bocca a lungo.
Più tempo passerà, più forse sarà semplice guardarla alla distanza e immergersi, andare sul fondo – con le pinne e gli occhialetti – e trovare lì i detriti di quello che ci sta accadendo. È spesso dagli scarti e dai resti che nasce, infatti, la buona letteratura.
Giulia Caminito
Nata a Roma nel 1988, è laureata in Filosofia politica. Ha esordito con il romanzo La Grande A (Giunti 2016, Premio Bagutta opera prima, Premio Berto e Premio Brancati giovani), seguito nel 2019 da Un giorno verrà (Bompiani, Premio Fiesole Under 40).