Cosa abbiamo imparato dalla pandemia?

Intervista a Rino Rappuoli, direttore scientifico della Fondazione Biotecnopolo di Siena e presidente della IUMS, International Union of Microbiological Societies.

Il 5 maggio l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il Covid non è più un’emergenza sanitaria ma un virus con cui convivere. Proprio il 5 maggio, la data della morte di Napoleone, la fine di un’epoca che aveva cambiato il mondo. Anche la pandemia ha cambiato il mondo; un mondo che non sarà più lo stesso dopo i 20 milioni di morti, i 5 miliardi di infezioni, e la spesa economica di 28 trilioni (una cifra che rappresenta un anno e mezzo il PIL degli Stati Uniti e quindici anni di quello italiano). 

Ma abbiamo ancora bisogno di vaccini, secondo il professor Rino Rappuoli, microbiologo e Direttore Scientifico della Fondazione Biotecnopolo di Siena, un centro dedicato alla ricerca delle pandemie del futuro. «I vaccini di cui abbiamo bisogno oggi, visto che la mortalità del covid è diminuita tantissimo, sono quelli che proteggono dall’infezione e diminuiscono la circolazione del virus. Sappiamo che le persone si infettano di nuovo dopo 4/5 mesi: abbiamo quindi bisogno di vaccini con una lunga durata, capaci di resistere alle varianti».
Questo è l’obiettivo a breve termine, mentre a lungo termine abbiamo bisogno di investire per evitare che pandemie di questo genere possano succedere nuovamente.

Perché ci saranno altre pandemie. Secondo il professor Rappuoli, «dobbiamo ipotizzare che ci saranno altre emergenze perché negli ultimi 30 anni sono aumentate tantissimo le malattie dovute a virus. Basta pensare alla SARS nel 2002, l’influenza del 2009, l’Ebola, lo Zika e infine il Covid-19». 
Per capire cosa potrebbe succedere in futuro, basta consultare la lista di virus e batteri stilati da Antony Fauci, immunologo statunitense e consulente del Biotecnopolo di Siena.

La comparsa di nuove pandemie è accelerata inoltre dall’impatto che abbiamo sul nostro pianeta: dai viaggi che facciamo, alla deforestazione fino al cambiamento climatico che sta spostando malattie che prima erano in zone più calde. 

Cosa succede quando scoppia una nuova pandemia? 

«I governi iniziano a finanziare la ricerca e tutti diventano esperti. Ma la soluzione arriva quando ormai l’emergenza è già diffusa: ecco perché questo approccio reattivo non è efficiente e nemmeno sostenibile – afferma il professor Rappuoli – Il problema con questo approccio lo abbiamo visto con il covid e con le sue continue variazioni per cui appena i ricercatori realizzavano un monoclonale, il virus era già cambiato».

Ma la pandemia ci ha anche mostrato che si può sviluppare vaccini molto efficienti in soli 10 mesi: quelli a RNA (come Moderna e Pfizer) hanno raggiunto infatti il 95% dell’efficacia, mentre quelli con il reattore virale (come Astrazenica) hanno ottenuto un successo dal 62 al 90%. Ma tutti hanno funzionato (soprattutto nella fase iniziale) e hanno salvato 20 milioni di vite.

Una velocità, quella nello sviluppo dei vaccini contro il covid, determinata da due fattori: l’enorme avanzamento tecnologico degli ultimi anni e l’importante investimento del settore pubblico. 

Come nascono i vaccini?

«Intanto, per fare un vaccino ci vuole almeno 1 miliardo di euro – dichiara Rappuoli – ma per mitigare il rischio economico, e non spendere subito tutti i soldi rischiando un fallimento, si procede a fasi: prima si fa la scoperta del vaccino (che costa qualche milione) e, se funziona, si inizia la fase 1 in cui il vaccino viene testato su un numero limitato di persone per valutarne la tollerabilità, ovvero la frequenza e la gravità degli effetti collaterali. Se la fase 1 (che costa qualche decina di milioni e che richiede anche 18 mesi) funziona, si passa alla fase 2 che costa altri 100/150 milioni e può durare anche 2 anni. Durante la fase 2 il vaccino viene somministrato a dosi diverse e se ne studiano gli effetti; se questa fase  funziona, si procede con la spesa finale (fase 3) che comprende la costruzione dell’impianto e le prove cliniche, per una spesa di centinaia e centinaia di milioni. Ma questi soldi non si spendono se tutte le fasi precedenti non hanno funzionato e solitamente ci vogliono dai 10 ai 20 anni per fare tutto».

Come tutti sappiamo, con il covid non si poteva aspettare tanto: così i governi, soprattutto quello americano, ha stanziato 12 miliardi e mezzo di dollari per accelerare la ricerca. Le fasi necessarie allo sviluppo del vaccino (scoperta, fase 1, 2 e 3) sono state quindi realizzate in parallelo, invece che in modo sequenziale. «Così appena si è individuata una scoperta che sembrava funzionare, abbiamo subito proceduto con la fase 1 che, appena ha restituito i primi dati del funzionamento del vaccino nell’uomo, è passata alla fase 2. Infine, appena i ricercatori hanno trovato i primi dati sul funzionamento del vaccino sono entrati subito nella fase tre. E così siamo arrivati in fondo in soli 10 mesi». 

Il vaccino è stato realizzato velocemente, ma senza rischi per la salute dal momento che non è stata saltata nessuna delle tappe necessarie a stabilire l’efficacia e la sicurezza. L’unico rischio è stato quello finanziario, dal momento che c’era la possibilità che il governo americano avesse sprecato 12 miliardi e mezzo.

«Una volta, a un convegno, Michael Kramer, premio nobel per l’economia, mi ha raccontato quanto c’è voluto a ripagare quei 12 miliardi e mezzo stanziati dal governo americano: 12 ore. Cioè anticipare il vaccino di 12 ore è stato sufficiente per ripagare quell’investimento». È così che dobbiamo pensare alla salute e alla ricerca: non come una spesa ma come un investimento per la nostra salute e per il pianeta

Di cosa si occupa la Fondazione Biotecnopolo di Siena?

«Una cosa che stiamo facendo al Biotecnopolo – grazie anche alla campagna di Coop che ha raccolto, a livello nazionale, 1 milione e 600 mila euro -, è stato prendere nel database mondiale i 13 milioni di genomi del virus sequenziato, analizzare la parte importante del virus, cioè quella che riconosce il recettore, scoprire le mutazioni e realizzare modelli tridimensionali per sviluppare i monoclonali efficaci per tutte le varianti. Ma questo lo possiamo fare solo adesso che l’emergenza della pandemia è finita. 

Un’altra battaglia che stiamo portando avanti è la salvaguardia dei microbi. Sul nostro pianeta vivono circa 1 triliardo di microbi che servono non solo a produrre cibi o reazioni chimiche: servono alla vita. I 40 miliardi di batteri che vivono nel nostro intestino, ad esempio, ci permettono di mangiare e quindi di vivere». 

Di questo triliardo di microbi, spesso ci ricordiamo solo di quelli che ci causano le malattie, che sono 1.400. L’avvertimento dei microbiologi è quindi quello di non esagerare con i disinfettanti, i concimi chimici e gli antibiotici che uccidono tutti i microbi, e che poi finiscono nei fiumi e negli oceani. «Dobbiamo investire nella ricerca di soluzioni mirate, che colpiscano solo i 1.400 batteri che causano malattie, invece che usare rimedi a largo spettro poco sostenibili per il pianeta» dichiara il professor Rappuoli.

Investire nella ricerca è quindi essenziale non solo prevenire malattie infettive nel futuro e aumentare la salute della popolazione in generale, ma anche per avere un mondo più sostenibile.

Cosa possiamo fare per prevenire le future pandemie? 

«Oggi sono l’Organizzazione Mondiale della Salute insieme al CEPI – l’istituzione con sede a Londra sostenuta anche da Bill Gates – e l’NIH americano ad occuparsi della prevenzione delle pandemie. Insieme hanno individuato 30 famiglie che contengono al loro interno centinaia di virus. A questo punto, i ricercatori hanno individuato le 10 famiglie più pericolose e stanno realizzando un prototipo di vaccino monoclonale per almeno un membro del virus. Questo vaccino viene analizzato poi nel dettaglio, perché sarà il punto di partenza per eventuali sviluppi futuri di tutti i virus provenienti dalla stessa famiglia».
In poche parole, i ricercatori realizzano i prototipi per ciascuna famiglia di virus in modo che, se arriva un altro virus della stessa famiglia, sono pronti a partire velocemente.

Questo perché il periodo pandemico ci ha insegnato che non si può aspettare che le patologie arrivino per poi rincorrerle: dobbiamo investire nella ricerca, anche perché, secondo il professor Rappuoli, siamo di fronte a un nuova pandemia, quella della resistenza agli antibiotici, che ogni anno conta 5 milioni di morti, più di HIV e tubercolosi messi insieme. Già nel 2017 Coop aveva lanciato la campagna “Alleviamo la salute“, contro l’antibiotico resistenza negli animali da reddito, per contrastare l’aumento di batteri resistenti e dare alle persone una garanzia in più per la loro salute.

«Si stima che da qui al 2050 l’antibiotico resistenza costerà 100 trilioni all’economia mondiale: per rendersi conto della cifra la pandemia appena passata ne è costata 28. Secondo la previsione di matematici, avrà un impatto sul PIL nel 2030 simile a quello del cambiamento climatico».

Per rispondere a questa nuova emergenza, il professor Rappuoli e l’Unità operative di Malattie infettive dell’Aoup di Pisa stanno analizzando uno dei batteri più resistenti a tutti gli antibiotici, la Klebsiella kpneumoniae, presente in tutto il mondo e anche nella parte nord occidentale della Toscana. 

«Nello specifico, prendiamo il sangue dei pazienti infetti ed estraiamo i batteri monoclonali. Finora ne abbiamo individuati 24 e abbiamo scoperto che nei modelli animali alcuni di questi riescono a proteggere dalla mortalità». Non sono più antibiotici ma monoclonali, nuove soluzioni più sostenibili rispetto agli antibiotici a largo spettro. Mentre i monoclonali e i vaccini sono dei “missili intelligenti” che colpiscono solo il batterio selezionato, gli antibiotici sono “bombe atomiche” che distruggono tutto. Ecco perché non dobbiamo abusarne.

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