I roghi dei mesi scorsi nella foresta amazzonica in Brasile e Bolivia, ma anche quelli in Indonesia, hanno la stessa radice, lo sfruttamento delle risorse del sud del mondo, e le medesime conseguenze a livello globale: «Perché in cielo i muri non esistono e quello che accade in una zona del pianeta si ripercuote anche a migliaia di chilometri» spiega Giorgio Vacchiano, ricercatore in Gestione forestale all’Università Statale di Milano.
Si sente dire spesso: “L’Amazzonia è il polmone del mondo”. E davvero così?
In realtà no, perché una quantità stimabile fra il 50 e il 70% dell’ossigeno sulla Terra è prodotta dalla fotosintesi delle alghe negli oceani. Il resto dalle praterie, dai campi coltivati (sì, anche loro) e dalle foreste di tutto il mondo. L’Amazzonia si limita a contribuire all’ossigeno dell’atmosfera per una percentuale che non supera il 6% (secondo alcuni studi anche molto meno).
Perché allora i roghi ci devono allarmare?
Perché bruciando si produce anidride carbonica che è la causa principale dell’effetto serra e, poiché in proporzione ce n’è poca nell’atmosfera, aggiungerne o toglierne fa molto più effetto che aggiungere o togliere un po’ di ossigeno. Il suolo, inoltre, non più coperto dalla vegetazione, libera altra C02 e altra ancora sarà prodotta dai batteri decompositori attivati dalla luce del sole.
In Bolivia in poche settimane di incendi sono morti più di due milioni di animali selvatici, tra cui giaguari, puma e lama…
Gli incendi mettono a rischio milioni di specie animali e vegetali, la gran parte sconosciute, fra cui il 25% delle piante medicinali che l’umanità utilizza per la produzione di farmaci. Per non parlare dei problemi per le popolazioni che dipendono dalla foresta per l’accesso al cibo e all’acqua.
Perchè l’Amazzonia e l’Indonesia bruciano?
Il 99% di questi incendi ha origine umana dolosa: le foto satellitari mostrano che a bruciare sono le zone ai margini della foresta, al confine con i campi coltivati e i pascoli.
Per farci cosa?
Piantagioni di soia in Brasile e di palme in Indonesia. La soia per uso alimentare umano, ma soprattutto come nutrimento per bestiame da carne destinato all’esportazione. Le palme per la produzione di quel famoso olio di cui l’industria sembra non riuscire a fare a meno e che troviamo ovunque, dai prodotti alimentari ai cosmetici, persino nei dentifrici.
E dove vengono esportati?
In Europa, negli Stati Uniti, in Cina, dove la popolazione negli ultimi decenni ha aumentato il proprio tenore di vita e di conseguenza anche i consumi. E certamente anche in Italia, con una particolarità tutta nazionale, perché dal Brasile arriva sì la carne, ma anche il pellame che serve per produrre gli oggetti di lusso, che alimentano la nostra economia.