Quattro storie di chi si mette in ascolto per aiutare gli altri

Dal medico al parroco, dallo psicologo all'addetto al box informazioni del supermercato.

Pronto dottore?

Il medico, quello di una volta, che ti auscultava con il fazzoletto appoggiato sulla schiena e dal tono della voce, più che dalle parole, capiva come stavi. «Ma anche l’espressione del volto e il modo in cui si spoglia il paziente sono elementi importanti per capire lo stato di salute» racconta Alberto Berzi, dottore e discendente da una famiglia di dottori, che ama definirsi “medico di assistenza”. In sintesi: guardare e ascoltare.

Oggi che il contatto medico-paziente corre sul filo dei social e si basa sempre più sulla diagnostica per immagini, queste due parole d’ordine rappresentano una sorta di “ritorno al futuro”: «La visita deve avvenire in un ambiente riservato, perché la persona va dal medico per spogliarsi, e non solo dei vestiti, ci va per aprirsi e raccontarsi, come in una sorta di confessionale. Il colloquio deve quindi in una prima fase permettere al paziente di esprimersi, di spiegare come si sente, e il medico deve porsi in ascolto e fare poche domande mirate, senza interrompere l’esposizione».

Poi si passa alla fase più tecnica della visita, che secondo la tradizionale semeiotica (dal greco antico, segno: è la disciplina che studia i sintomi soggettivi e i segni clinici) prevede quattro momenti: l’ispezione, la palpazione, la percussione e l’auscultazione. «Le persone oggi hanno una cultura medica che non si poteva neppure immaginare quando ho cominciato questo lavoro, e non può essere ignorato, così come non va sottovalutato che molti arrivano già con un’auto-diagnosi elaborata spesso in maniera aberrante sulla base delle informazioni reperite su internet o sui social».

E chissà cosa penserebbe l’ottocentesco bisnonno di Alberto dell’abitudine ormai in voga di comunicare quasi esclusivamente via mail con i propri assistiti! «Via mail proprio no! Certamente, se non è possibile visitare di persona – risponde il bisnipote -, si può ricorrere al telefono, perché anche dalla voce si capisce se una persona sta bene oppure no».

Quando la risposta non c’è

Per secoli è stato il principale luogo dell’ascolto, il confessionale. Il buio e la grata a garantire (o quasi) l’anonimato, dall’altra parte il sacerdote pronto a ricevere e nascondere anche i segreti più inconfessabili. Oggi, la Chiesa mantiene questo compito consolatorio, ma anche con altre modalità. Lo fa ad esempio con gli sportelli di ascolto della Caritas, presenti in molte parrocchie: «Vi si rivolgono per lo più persone che hanno problemi economici ma spesso, dopo aver esposto le necessità pratiche, emerge anche il disagio psicologico. L’incontro con i volontari diventa quindi l’occasione per alleggerire la mente da pensieri e preoccupazioni. Anche se il problema, ad esempio, della mancanza di un lavoro non è risolto, la sensazione di essere stati ascoltati aiuta».

A parlare è Fabio Marella, vicedirettore Caritas Firenze, che dell’ascolto ha fatto una missione. Infatti presta servizio anche all’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze e non è difficile immaginare quanto sia delicato questo ruolo: è a lui che si rivolgono i genitori di bambini gravemente malati in cerca di conforto. «La domanda che mi viene posta più di frequente è: “Perché è successo proprio a mio figlio?”. Anche se non c’è una risposta, mi metto in ascolto, faccio sentire la mia partecipazione e poi propongo un percorso spirituale insieme.

Spesso, questo dona un po’ di sollievo» precisa don Fabio, che aggiunge: «Ho scoperto la mia predisposizione ad ascoltare le persone quando lavoravo in banca, prima di diventare sacerdote: anche allora i clienti si aprivano facilmente con me e io mi sono sempre messo a disposizione. Si può ascoltare con la mente o con il cuore, questo fa la differenza, ma soprattutto è importante dedicare del tempo, per riuscire a mettersi in relazione con gli altri».

Chiediamo: ci sono strategie per non farsi travolgere dai problemi che ci vengono raccontati e mantenere l’equilibrio psichico indispensabile per dare un aiuto? «Bisogna essere preparati: ad esempio io ho seguito un master dedicato, ma ogni volta è necessario trovare il giusto equilibrio e mantenere vivo il desiderio di aiutare le persone» conclude don Fabio.

Quattro storie di chi si mette in ascolto per aiutare gli altri

Silenzio come ascolto

Se già infrangere il silenzio è difficile, instaurare un dialogo sembra impossibile. Eppure è proprio con gli adolescenti che diventa importante mettersi in ascolto e captare anche i segnali più criptici.

«Il silenzio degli adolescenti può significare mille cose differenti, da un silenzio di riflessione e di pensiero, utile e benefico, a un vero e proprio ritiro – spiega Rosanna Martin, responsabile del servizio di Psicologia dell’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze -. Per evitare i comportamenti più psicopatologici si dovrebbe cominciare a “lavorare” da molto lontano, fin dall’infanzia».

Descritti dallo psicologo Gustavo Pietropolli Charmet come “figli della famiglia affettiva”, basata su relazioni improntate alla comprensione dei sentimenti reciproci, per gli adolescenti di oggi emanciparsi appare più complicato. In compenso, hanno minori difficoltà a condividere quesiti riguardanti la crescita con adulti esterni all’ambito familiare, come gli psicologi con cui hanno l’opportunità di entrare in contatto sia nei servizi pubblici di ospedali e Usl sia nelle scuole, chiedendo ascolto e spazio per sé.

Ai genitori desiderosi di mettersi in ascolto dei propri figli, la psicologa consiglia «di sostenere il figlio nel percorso di di crescita e di aiutarlo a varcare la soglia che separa l’infanzia e l’adolescenza, tollerando il modo unico con cui lo farà, appoggiandolo senza criticarlo, anche se non corrisponde in alcun modo alle aspettative di babbo e mamma, rendendolo fiducioso che ce la potrà fare, piano, sbagliando, con i suoi tempi e con i suoi modi. Il silenzio e l’isolamento sono un chiaro segnale di arresa, i ragazzi si fermano perché si sentono sbagliati».

Gli errori più comuni da evitare? «L’invasività di mille domande ansiogene e il suggerimento di comportamenti da mettere in atto. Utile, invece, accogliere la fatica del momento, anche raccontando le proprie difficili esperienze e stati d’animo adolescenziali, condividere e stare accanto, anche in silenzio».

Oltre le barriere

L’accoglienza inizia dal sorriso, ma da quando c’è il Covid è tutto più complicato. Mascherine e protezioni, messe a disposizione da Unicoop Firenze fin dall’inizio della pandemia, hanno avuto il pregio di rassicurare sia i clienti sia i dipendenti. Non si può negare, però, che rappresentino un handicap nell’avvio della relazione.

«Per facilitare il passaggio della voce e l’ascolto, ai box accoglienza sono stati creati dei pannelli trasparenti con una piccola fessura nella parte bassa. La complicazione maggiore però arriva dalle mascherine, che attutiscono il suono, nascondono il labiale e, soprattutto, coprendo parte del volto, riducono la componente non verbale della comunicazione. Il sorriso, infatti, è il biglietto da visita che orienta una conversazione, seppur breve, nella giusta direzione» racconta Iessica Nannelli, responsabile del Servizio Clienti di Unicoop Firenze. Restano gli occhi, è vero, a favorire l’incontro, ma da soli a volte non bastano per esprimere la disponibilità all’ascolto. C’è da dire poi che la fretta sommata alla paura rende tutti meno tolleranti e meno pazienti.

Come si fa allora a creare le giuste condizioni per una buona relazione davanti a qualcuno che non solo deve fare un reclamo, e già per questo motivo può essere indispettito, ma teme anche di essere contagiato oppure non riesce a respirare bene per la mascherina?
«Quando si parla di servizio al cliente, le variabili che intervengono sono molteplici e difficili da prevedere, per cui solo chi ha la giusta predisposizione alle relazioni e una buona formazione può svolgere questo lavoro».

E quando, nonostante tutto l’impegno, non si riesce a capire cosa desidera la persona che si rivolge al box? «Fare qualche domanda in più può aiutare – precisa Nannelli -, ma la regola più importante è quella di cercare di mettersi sempre dalla parte di chi abbiamo davanti».

Voci dallo spazio

Nel 1969 dallo spazio si poteva sentire solo la voce del Maggiore Tom, protagonista del successo mondiale di David Bowie, Space oddity. Oggi il programma di ricerca Breakthrough listen, finanziato dal miliardario Yuri Miner, è continuamente in ascolto per captare eventuali comunicazioni extraterrestri. Lo fa attraverso potenti radiotelescopi collocati nei due emisferi terrestri, fra cui uno a San Basilio (CA) in Sardegna.

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