Un po’ di numeri
Ci vorranno sessant’anni, secondo l’Istituto europeo sull’eguaglianza di genere (Eige), per raggiungere la piena parità fra uomo e donna. A livello europeo ci sono stati progressi negli ultimi dieci anni, in particolare per quanto riguarda la presenza delle donne in ruoli politici, ma c’è ancora tanto da fare, soprattutto in Italia.
Se nel nostro Paese una donna ha la possibilità di vivere 4,4 anni più di un uomo, solo il 33,3% occupa ruoli decisionali, mentre ha il 61% di probabilità in più di svolgere il lavoro di cura e domestico. In Italia l’occupazione femminile non supera il 50%.
In questo quadro già desolante, si inserisce la crisi dovuta al Covid: secondo i dati Istat, sui 101.000 nuovi disoccupati del mese di dicembre 2020, il 98% è donna. Colpite anche coloro che avevano deciso di mettersi in proprio: nel corso del 2020 sono sparite in Italia 4000 imprese in rosa.
I settori che hanno sofferto di più sono quelli dei servizi, in primis turismo, ristorazione, commercio e lavori di accudimento e pulizia, dove sono tradizionalmente impiegate le donne. «Tra i rischi segnalo un arretramento dell’occupazione, se la ripresa sarà debole in settori importanti per la manodopera femminile come il turismo o il commercio; aggiungo un ricorso al lavoro agile che finisca per ostacolare la condivisione del lavoro domestico invece di facilitarla. Vedo invece opportunità in quel ritorno di consapevolezza che sento nell’aria: la pandemia sembra aver scosso, cioè, la falsa certezza di molte giovani donne che le disparità di genere siano scorie del passato» spiega Francesca Bettio, docente di Politica Economica all’Università di Siena.
I conti non tornano
A prescindere dalla crisi da Covid, se anche lavorano, le donne guadagnano dal 17% al 21% in meno degli uomini. Il motivo? Più di uno, a partire dal dato che «le donne lavorano effettivamente meno ore e giornate degli uomini, alle disparità di carriera, al fatto che molte occupazioni tipicamente femminili sono pagate poco» spiega la professoressa Bettio.
In passato ha fatto scalpore che la differenza salariale nel nostro Paese risultasse minore della media europea, ma anche questo dipende da un fattore negativo: «Il gap che si registra in Italia è più basso di quello europeo di circa 3 punti percentuali. Una delle ragioni è che in Italia le donne meno istruite, e quindi a basso salario, lavorano meno che in altri Paesi». Quindi si torna al minor numero di ore e giorni lavorati, spesso non per scelta. «La disparità non è nel salario – specifica Paola Galgani, segretaria generale della Camera del lavoro metropolitana di Firenze -, perché perlomeno, dove esistono contratti nazionali, la retribuzione oraria è ovviamente la stessa per uomini e donne. La disparità è nel reddito a fine anno, in cui le donne sono penalizzate perché usufruiscono di congedi, maternità facoltativa, aspettativa non retribuita che, di fatto, riducono anche la possibilità di cumulare benefit, straordinari e quote di salario variabile».
Lavoro familiare e di cura
La mancata parità vede nel lavoro familiare e di cura, generalmente declinato al rosa, uno dei principali ostacoli: «Le donne lavorano il doppio ma questo impegno non è socialmente riconosciuto né quantificato – spiega Galgani -. Il lavoro di cura e di gestione della famiglia riduce il tempo di vita fuori casa e, insieme, il campo di opportunità lavorative. Diventa quindi una penalizzazione individuale, che spesso copre la carenza di servizi per l’infanzia o per le fasce anziane. Il Nord Europa offre modelli molto diversi, dove il congedo di paternità, ad esempio, è obbligatorio ed equamente diviso fra i due genitori».
Dello stesso parere è Antonella Mansi, imprenditrice e già vicepresidente di Confindustria: «Rispetto alla nostra Costituzione e ai quadri normativi, che pongono principi molto chiari sulla parità, nella realtà esistono una serie di storture che ne rendono impossibile l’attuazione: in primis mi riferisco al lavoro di cura che porta le donne ad autoridursi sul lavoro, per semplice mancanza di tempo e non certo di competenze o qualità professionali».
Di fatto mancano, come condiviso anche da Bettio, «i cosiddetti investimenti in infrastrutture sociali. Attenzione, le infrastrutture non sono solo quelle fisiche – gli edifici, per intenderci – bensì tutte quelle risorse destinate a servizi e istituzioni che sappiamo essere fondamentali per la parità, dall’istruzione (asili compresi) alla salute, all’assistenza agli anziani, ai centri anti-violenza».
Questione di cultura
A rallentare i percorsi femminili è dunque un quadro culturale non all’altezza dei tempi e lento a cambiare, che risulta lampante quando si parla di carriera. «Le donne sono perdenti – continua Galgani – perché le aziende, con una certa miopia, utilizzano criteri di valutazione prevalentemente quantitativi, che premiano la disponibilità di tempo e la presenza fisica al lavoro, anziché gli obiettivi raggiunti. Inoltre, esiste ancora una logica di ricatto straordinario che obbliga le donne, per esempio, al part time involontario e si traduce in un diffuso sottoinquadramento, a parità di competenze con gli uomini, un approccio miope rispetto a quanto gli stessi studi scientifici ci dicono e cioè che una maggiore occupazione femminile produce una maggiore resilienza del sistema d’impresa».
Ripartire dai singoli individui
La medaglia ha sempre due facce e, anziché dal contesto, secondo Mansi occorre partire dai singoli individui: «Le donne per prime devono liberarsi da certe dinamiche autolimitanti, da quei codici educativi per cui alcune professioni sono femminili e altre maschili, come quelle ingegneristiche o a carattere tecnico e tecnologico e a maggiore digitalizzazione. Questi sono gli stereotipi che la mia generazione ha ereditato: i giovani di oggi, invece, sono cresciuti con modelli familiari diversi e sono già pronti a un mondo dove il lavoro è una questione trasversale al genere. Per il futuro sono fiduciosa perché la forte competizione su scala globale, l’imponente digitalizzazione e la lenta ma inarrestabile crescita delle donne in tutti i ruoli, stanno accelerando un cambio di mentalità nel mondo del lavoro».
Quota rosa: sì o no?
Se il “soffitto di cristallo” (dall’espressione inglese glass ceiling, metafora che si usa per indicare una situazione in cui l’avanzamento di carriera, o il raggiungimento della parità di diritti, viene impedito per discriminazioni e barriere di prevalente origine razziale o sessuale) è ancora una realtà confermata dai numeri, le strade da percorrere per abbatterlo sono varie e richiedono, come spiega Galgani, diversi strumenti: «Occorre innanzitutto una legislazione più dettagliata, con obblighi di trasparenza sui dati di occupazione, sui contratti e sulle retribuzioni. Insieme, è fondamentale un lavoro di concertazione con le aziende. Non è pensabile intraprendere un cambiamento sociale se non passando per un’azione corale e collettiva. In un contesto che, complessivamente, è così lento a evolvere, è necessario forzare il cambiamento anche con strumenti come le quote rosa sul lavoro».
Anche secondo la professoressa Bettio le quote rosa sono uno strumento da non trascurare, particolarmente «utili in tutti quei casi in cui altri strumenti si rivelino inefficaci o troppo lenti ad agire. Devono essere pensate come “misure a tempo”, spesso il tempo necessario a far vedere che l’esclusione delle donne è motivata da pregiudizi».
Ma le misure “protezionistiche” non sono condivise da tutte, Mansi ad esempio è convinta che per abbattere il soffitto di cristallo serva «la clava, e con questo intendo la capacità di riconoscere i propri talenti e di spenderli in direzione dei propri obiettivi personali. La prima regola è non pensare mai di essere escluse a priori. La seconda, quella di non mollare mai a metà partita. E la terza, è giocare le proprie carte con la convinzione di poter vincere, perché nell’attuale mercato globale la competizione è sulla preparazione e sulle competenze – conclude -. Le imprese hanno bisogno dei migliori e dando spazio ai migliori emergeranno sempre più anche le donne».
Storie di resilienza al femminile
Intanto c’è chi prova a reinventarsi: è il caso di alcune guide turistiche, più penalizzate che mai in una regione come la Toscana. Fra queste, Cristina, dell’associazione Musei a Colazione, ha deciso di dedicarsi a tour per bambini e ragazzi, con uscite a tema in città e nei musei riaperti in zona gialla. Laura, dell’associazione culturale Archetipo, insieme a un gruppo di attori, guida le passeggiate teatrali sulle orme di grandi scrittori vissuti a Firenze. Fra le tante che non si arrendono c’è anche chi, come Sonia, sfidando i luoghi comuni, si è rimessa in gioco con un corso di falegnameria, per avviare un’attività in proprio fra le quattro mura di casa.
I gruppi social, da quelli al femminile a quelli di quartiere, pullulano di proposte, idee e richieste d’aiuto. Spesso è proprio l’online il punto di incontro fra domanda e offerta e ad esso si affidano tante piccole imprenditrici, come Beatrice, neo mamma, che ha convertito la sua passione per i gioielli in creazione di collane con materiali riciclati, o Carlotta, che insieme alla nonna, recupera e personalizza vestiti e oggetti vintage provenienti da cantine, soffitte e mercatini. Elisa, pasticcera di lunga esperienza ora disoccupata, invece prepara torte e buffet con consegna gratuita a domicilio.
A Montelaterone, borgo medievale di cento abitanti alle pendici del Monte Amiata, la scorsa estate otto donne si sono unite e hanno fondato la cooperativa di comunità “Il Borgo”, con lo scopo di salvare il paese dallo spopolamento e rimettere in moto la microeconomia locale. Pur in piena pandemia, la scorsa estate erano già in funzione il circolo ricreativo, che ospita la bottega alimentare e la bottega della salute, l’albergo diffuso, con quattro case destinate all’affitto turistico, la mensa agricola e sociale e un punto-ristoro con i prodotti delle aziende del territorio. Il tutto è stato possibile perché la cooperativa, con il suo progetto di rilancio del territorio, ha ottenuto 300.000 euro di fondi da Regione Toscana, Ue e associazioni cooperative.
(di Cecilia Morandi e Sara Barbanera)