Natale e Teatro

Dal grande classico di "Natale in Casa Cupiello" di Edoardo De Filippo ad un’opera meravigliosa e poco nota di Jean Paul Sartre. Percorsi, storie e stili che sembrano lontani ma che, proprio perché pensati per il pubblico, sanno parlarci ancora e per sempre.

Casateatro
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Casateatro è un progetto di Unicoop Firenze realizzato in collaborazione con Murmuris Teatro per creare un gruppo di spettatori consapevoli e promuovere la partecipazione ed il coinvolgimento attivo del pubblico nella vita dei teatri toscani.

Questo martedì abbiamo deciso di condividere un articolo che sia spunto di riflessione e confronto rispetto a un momento così particolare come quello del Natale, specialmente in questo 2020. Foyer esiste anche per questo, non solo per raccontarci le etimologie delle parole, ma anche, diremo, le etimologie delle esperienze.

Proveremo ad avvicinarci a questo tema passando dal grande classico del notissimo De Filippo a un consiglio di lettura di un’opera meravigliosa e poco nota di Sartre, tentando di incrociare percorsi, storie e stili che sembrano lontani ma che, proprio perché pensati per il pubblico, sanno parlarci ancora e per sempre.

Natale e teatro: cosa hanno in comune?

Verrebbe da pensare che poche cose siano più lontane. Eppure a ben vedere i due territori si incontrano sul terreno dell’illusione e della rappresentazione. Natale, tempo di giochi in famiglia, ci concediamo allora un gioco di libere associazioni e vedremo quanti aspetti in comune abbia con il Teatro.

Essi condividono l’altissimo grado di ritualità. I giorni di Natale avvicinano al mistero della nascita di Cristo che deve essere attesa e preparata da azioni ogni anno uguali e precise. Il disorientamento di questo 2020 arriva anche dall’interruzione di questa ritualità fatta non solo di cerimonie religiose, ma anche di gesti domestici che sempre si ritrovano uguali.

Il “Natale in Casa Cupiello” di Edoardo De Filippo

Il 25 Dicembre del 1931 fu un Natale speciale a Napoli, perché andò in scena per la prima volta all’allora Teatro Kursaal “Natale in Casa Cupiello” della Compagnia del Teatro Umoristico I De Filippo. Eduardo decideva così di parlare di Natale il giorno di Natale, di mettere in scena un evento il giorno stesso in cui accadeva. Cos’altro per farci capire che il teatro parla di noi? Anzi di più, per dirlo con le sue parole, che “nel teatro si vive sul serio quello che gli altri recitano male nella vita“. E tra le tante cose che nella vita recitiamo male, ci sono anche le riunioni familiari imposte, i momenti che proprio perché ripetuti si svuotano di significato, si irrigidiscono e da piacevoli occasioni si trasformano in coni d’ombra insopportabili.

Chissà se un Natale come questo che stiamo vivendo, atipico, distante, per molti solitario, non abbia compiuto il miracolo di farci desiderare di nuovo qualche cosa che non ci ricordiamo più.

Edoardo De Filippo – Foto tratta da it.wikipedia.org/

Natale in casa Cupiello parla di noi quindi, anche perché in tutti noi c’è una parte di Luca Cupiello, che resta pateticamente attaccato alla costruzione del suo amato presepe anche durante il naufragio della sua famiglia e della sua stessa vita. Le sue ultime parole “Te piace ‘o presepio” pronunciate sul letto di morte al figlio ci raccontano della sua tragica necessità di restare comunque ancorato alla vita pur nel delirio allucinatorio dell’agonia. Nella fine del matrimonio della figlia è rappresentata la fine della sua illusione di una vita piccolo-borghese e composta, scandita dal rito sacro dell’allestimento del presepe, curato nei minimi dettagli con “le casette piccole per la lontananza” misera scenografia di un mondo (la famiglia, Napoli, la vita, la paternità, il Natale stesso) che sta andando in frantumi.

Natale in casa Cupiello vide la luce 90 anni fa, ma la forza struggente e chiarissima del testo di Eduardo resta immutata oggi. Durante i tre atti la tensione è generata da quell’equilibrio delicato dato dal gioco crudele tra verità e menzogna che tutti noi abbiamo sperimentato in famiglia e in particolare durante le feste. Gioia sì, pranzi, cene, canzoni natalizie, addobbi e regali, ma chi ama chi? Cosa abbiamo da rimproverarci? Chi sa la verità? Quella famiglia del presepe è, anch’essa, rappresentazione di una verità che solo la fede sostiene nella conferma misteriosa della rivelazione, per chi crede. Per chi non crede resta la suggestione infantile di un rito sacro che comunque parla di noi.

Il racconto di Natale, per cristiani e non credenti, di Jean Paul Sartre

Ma il teatro e il Natale hanno un’altra cosa in comune: in entrambi è necessario credere per viverne la magia pienamente, accettando l’illusione, la convenzione, il gioco. Jean Paul Sartre certo non era uomo da farsi sedurre dall’infantile magia del natale, eppure “Ho fatto un mistero di Natale molto commovente, pare, tanto che a uno degli attori recitando veniva da piangere” dirà in una lettera a Simone de Beauvoir il 10 dicembre del 1940 informando la sua compagna della nuova opera composta in una condizione molto particolare e che venne rappresentata per la prima volta in un campo di prigionia.

Se ho preso il mio soggetto nella mitologia del Cristianesimo, ciò non significa che la direzione del mio pensiero sia cambiata, fu momento, durante la cattività. Si trattava semplicemente, d’accordo con i preti prigionieri, di trovare un soggetto che potesse realizzare, in quella sera di Natale, l’unione più vasta di cristiani e di non credenti“.

Sartre a Venezia nel 1976 – Autore User:T1980 da commons.wikimedia.org/

Jean-Paul Sartre scrive questa indicazione all’inizio di un’opera breve, assai poco conosciuta, dal titolo “Bariona o il figlio del tuono“. Lo fa quasi presentendo quei titoli dei giornali “Sartre, l’ateo che decise di inchinarsi a Gesù” (Corriere della sera 13/11/2003) che volevano suggerire una conversione in atto.

Il 2 giugno 1940 il filosofo, a seguito della disfatta francese, viene fatto prigioniero dai tedeschi, dopo vari spostamenti nei villaggi alsaziani dovette battere in ritirata a Padoux. Viene quindi trasferito nel campo di prigionia di Treviri dove resterà fino al 1941. Qui trova ispirazione per il breve testo teatrale ambientato in Giudea, al tempo della dominazione romana. Con stupore ed entusiasmo il popolo apprende la notizia della nascita di Gesù. Attorno a questo evento si svolgono le vicende del piccolo villaggio di Béthaur, distante venticinque miglia da Betlemme. Qui un funzionario romano arriva portando gli ordini del procuratore che ha previsto un ingiustificato aumento delle imposte. Bariona, il capo del villaggio, stanco delle angherie dei romani, cerca di opporre disperata e vana resistenza, ma alla fine deve cedere alle richieste del funzionario. Convincerà i suoi compaesani a pagare, ma farà una proposta sconvolgente agli anziani riuniti in Consiglio. Un sorta di vendetta esistenziale, una ritorsione tremenda che affonda le sue radici nel nichilismo presente nel pensiero del filosofo francese, un vero colpo di scena che certamente non ci aspetteremmo nel presepe e così, come in casa Cupiello, l’imprevisto irrompe, la vita infrange gli argini ed esonda imprevedibile.

Sarte perse il manoscritto di Bariona, ma i suoi compagni di prigionia lo conservarono in diverse copie e spesso pregarono vivamente il filosofo di autorizzarne la pubblicazione e rappresentazione. “La pièce sacrifiait trop à de longs discours démonstratifs” ebbe a dire Sarte che fu sempre tiepido verso questa sua creatura. Noi oggi stupefatti leggiamo la scena straordinaria dell’annunciazione in cui, nella notte magica e profumata, si vedono le stelle vicine e ci domina la sensazione che qualcosa di eccezionale stia accadendo e più ancora la descrizione della Sacra Famiglia in cui appare un Dio diverso, umano, vicino, un Dio che oggi vorremmo con noi, un Dio che sua madre guarda e pensa con le parole di Sartre:

Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. Mi rassomiglia. E’ Dio e mi assomiglia – e prosegue – Un Dio piccolo che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive”. Bariona, alla fine vinto dal mistero della nascita di Gesù e della nascita dell’Uomo guida se stesso e il suo popolo verso il riscatto, convinto che oggi e sempre “ci sarà ancora della gioia!”. Con queste parole si chiude il dramma di Sartre, breve e bellissimo.

A noi resta l’immagine struggente e salvifica di un Dio finalmente piccolo, tanto da tenerlo tra le braccia o forse tanto da sistemarlo nel presepe tanto caro al protagonista dell’opera di Eduardo. Finalmente nato. Per sempre. Sipario su casa Cupiello e sul campo di prigionia di Treviri.

E’ ancora Natale.

(A cura di Laura Croce e Luisa Bosi)

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