Una carriera che ha spaziato lungo oltre sei decenni, un’artista che ha trasformato il panorama della pittura astratta con la sua tecnica innovativa e la sua visione unica. A Helen Frankenthaler, una delle figure più importanti nell’arte del XX secolo, la Fondazione Palazzo Strozzi dedica “Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole”, che si pone come una delle più importanti rassegne mai dedicate all’artista in Europa e la più completa finora realizzata in Italia.
Dal 27 settembre e fino al 26 gennaio 2025, a Firenze arrivano così opere della sua produzione fra il 1953 e il 2002 in dialogo con dipinti e sculture di artisti contemporanei, fra cui Jackson Pollock, Morris Louis, Robert Motherwell, Kenneth Noland, Mark Rothko, David Smith, Anthony Caro e Anne Truitt.
Senza regole
Libertà espressiva, volontà di sperimentare nuovi materiali e tecniche, producendo dipinti su tela e carta, oltre a ceramiche, sculture, arazzi e soprattutto stampe, sono la caratteristica fondamentale di un’artista che sottolineava che «una delle prime regole è non avere regole» e che «la pittura, per me, è un modo di pensare e di sentire. È una continua scoperta, un modo per esplorare il mondo interno ed esterno».
Helen Frankenthaler (1928-2011) è stata una figura centrale nella transizione dall’Espressionismo astratto – che pone l’accento sull’atto creativo come gesto concreto, esperimento e azione: il risultato è una pittura caratterizzata da violenza gestuale e cromatica – al Color field painting – cioè “Pittura a campi di colore”, caratterizzata dall’uso di grandi tele coperte interamente da estensioni invariate di colore -: si potrebbe dire, con una estrema semplificazione, da Pollock a Rothko, entrambi presenti in mostra.
Ed è nota soprattutto per aver inventato la tecnica soak-stain (“imbibizione a macchia”): l’utilizzo di vernice diluita distesa orizzontalmente su tele non pretrattate permetteva al colore di penetrare profondamente nelle fibre della tela e creava effetti simili a quelli dell’acquerello, ma su larga scala e con colori a olio.
La vernice applicata con pennelli o spugne, o direttamente dai secchi, si espandeva e mescolava in modo naturale, creando interazioni cromatiche uniche: un metodo che non solo sfidava le convenzioni tecniche, ma anche quelle estetiche, creando opere che sembravano fluttuare fra l’astrazione e il paesaggio. Era il 1952 e quel lavoro, Mountains and sea, fu stroncato da alcuni critici: «Alcune persone lo vedevano come uno straccio di vernice gonfiato, qualcosa su cui pulire i pennelli, non qualcosa da incorniciare», ha ricordato in una conversazione del 1998 con la curatrice del Guggenheim, Julia Brown.
Helen e gli altri
Curata da Douglas Dreishpoon, direttore dell’Helen Frankenthaler Catalogue Raisonné, e organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi e dalla Helen Frankenthaler Foundation, la mostra mette in risalto la pratica innovativa di questa artista, anche attraverso il filtro delle affinità, delle influenze e amicizie che hanno segnato la sua vita personale e professionale. «La dedizione di Helen Frankenthaler alla pittura è stata arricchita dalle sue amicizie con gli artisti, alcuni dei quali sono diventati parte della sua famiglia allargata – dice Dreishpoon -. La cerchia di Frankenthaler ha rappresentato un ecosistema di forze creative in continuo movimento: osservare il loro lavoro in stretta connessione ci consente di comprendere meglio le innovazioni di Frankenthaler».
Con prestiti che arrivano, oltre che dalla Helen Frankenthaler Foundation di New York, da musei e collezioni internazionali – fra gli altri il Metropolitan Museum of Art di New York, la Tate Modern di Londra, il Buffalo Akg Art Museum, la National Gallery of Art di Washington – la mostra è organizzata cronologicamente, con ogni sala dedicata a un decennio della sua produzione dagli anni ‘50 ai primi anni Duemila.
In questo percorso che ne ricostruisce la pratica creativa, alle sue opere sono affiancate quelle di artisti a lei contemporanei, così da mettere in luce le sinergie e le affinità tra questi autori. All’inizio degli anni Cinquanta entra infatti in contatto con gli esponenti della Scuola di New York (un movimento artistico attivo fra gli anni ‘40 e ‘60), sviluppando rapporti di amicizia e di lavoro e collezionandone anche le opere, che espone nella sua casa di Manhattan.
Fra queste, alcune saranno protagoniste della mostra, come il lavoro su carta Helen’s collage (1957) di Robert Motherwell (con il quale fu sposata per un periodo), Aleph series V (1960), dipinto di Morris Louis, o la scultura Ascending the stairs (1979-1983) di Anthony Caro. La rassegna a Palazzo Strozzi evidenzia anche la consolidata influenza di Jackson Pollock sull’artista negli anni Cinquanta, con Number 14 (1951), un dipinto in bianco e nero a confronto con Mediterranean thoughts di Frankenthaler (1960), un colorato lavoro a olio che presenta analoghi «elementi di realismo astratto o di Surrealismo», frase che Frankenthaler usò per descrivere l’opera di Pollock dopo averla vista di persona la prima volta. Era l’autunno del 1951, ha raccontato, ed «è stato sconvolgente. Mi sono sentita davvero “accerchiata”. Sono andata con Clement Greenberg che mi ha gettato nella stanza dove era collocata e sembrava che mi dicesse “nuota”. A quel punto era stata esposta a sufficienza così da esserne colpita e vederne la magia».
Come nasce un quadro
Fra le opere in mostra, il dipinto di grandi dimensioni Open wall (Muro aperto, 1953), il cui titolo sembra fare riferimento a come l’artista fosse consapevole del dibattito in corso nei primi anni ‘50, fra i pittori e i critici di New York, se la pittura dovesse essere come una finestra o una parete: l’artista voleva che fosse entrambe, una parete aperta. Quanto alla scelta dei titoli delle sue opere, Frankenthaler confessò di essere piuttosto inadeguata: «Non mi piacciono i numeri perché non li ricordo. L’unico numero che abbia mai ricordato è il Number 14 di Pollock.
Di solito li intitolo per un’immagine che sembra uscire dal quadro stesso». O ancora The human edge (Il limite umano, 1967), che un critico all’epoca definì come «una strana fascia orizzontale sovrastata da stendardi color grigio, arancione e lampone». «Mentre guardavo il dipinto mi sono chiesta: è finito?», ha raccontato successivamente. Un metodo di lavoro, di sperimentazione e ricerca che l’ha accompagnata per tutta la sua vita artistica: «Come nasce un quadro? A volte lo inizio con la sensazione: “Cosa succederà se lavoro con tre blu e un altro colore, e magari più o meno dell’altro colore rispetto ai blu combinati?”. E molto spesso a metà devo modificare il lavoro in base dell’esperienza. Oppure aggiungo e aggiungo alla tela. E se è troppo elaborato e senza speranza, lo butto via».
Una serie di fotografie ed esempi di corrispondenza con amici arricchiscono la mostra e permettono al visitatore di approfondire la vita, personale e professionale, di un’artista che non amava le etichette anche quanto all’essere incasellata nella categoria di “artista donna”: «Innanzitutto, io mi occupo di dipingere, non di chi e come lo fa. Mi chiedo se le mie opere siano più “liriche” perché sono una donna. Guardare i miei quadri come se fossero stati dipinti da una donna è superficiale, una questione secondaria. La realizzazione di quadri seri è complicata per tutti i pittori seri. Bisogna essere se stessi, in ogni caso».
Per i soci Unicoop Firenze ingresso in convenzione e visite guidate gratuite con il pagamento del solo ingresso ridotto (12+1 € di prevendita) la domenica alle 15 e il lunedì alle 18. Nei prossimi mesi, visto il successo riscosso dagli appuntamenti precedenti, tornerà anche l’evento speciale dedicato agli under 30.
Prenotazione obbligatoria per le visite guidate: 0552645155, prenotazioni@palazzostrozzi.org
Per informazioni: palazzostrozzi.org