Cos’è la tanto – durante la pandemia – invocata resilienza, se non la capacità di stare dentro le cose di oggi pensando a domani? È ciò che viene in mente quando si legge una delle ultime ricerche dell’Università di Pisa dal titolo “Ficus carica, un’antica specie con grandi prospettive”. Si tratta di un progetto multidisciplinare (ha coinvolto genetisti, chimici, fisiologi vegetali, entomologi, arboricoltori e analisti sensoriali del dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali), finanziato dall’ateneo pisano, che ha attirato l’attenzione per un dato: l’aumento delle colture di co è la chiave di volta per il recupero dei terreni salini. In realtà, la ricerca dice tanto di più.
I tre obiettivi del progetto
«Il progetto aveva infatti tre obiettivi» racconta Barbara Conti, entomologa e coordinatrice del progetto. Certamente in primo piano c’è il recupero dei terreni salini. «Quello che abbiamo verificato è cosa succede da un punto di vista fisiologico, produttivo e sensoriale se le piante di fico sono sottoposte a stress salino, cioè alla somministrazione di dosi crescenti di sali mediante irrigazione».
Purtroppo in Italia la coltivazione del fico è passata dai 60mila ettari del 1960 ai 2000 di oggi, ovvero l’1% della produzione mondiale, mentre crescono costantemente i terreni salini che ammontano ormai nel Paese a oltre 400mila ettari.
«Il secondo obiettivo è stato raggiunto dopo la positiva risposta del fico alla salinità – racconta Conti -. Sono infatti stati identificati, sequenziando il genoma, i geni che favorivano la resistenza allo stress salino e la sua produttività».
L’aumento di acido salicilico nei frutti delle piante sottoposte a stress salino porta dunque ad ipotizzare un effetto priming, cioè una strategia adattativa che migliora le capacità difensive della pianta.
Una risposta interessante quindi per fronteggiare cambiamento climatico, desertificazione, e aumento dei territori salini. C’è però un risvolto della medaglia.
Minaccia aliena
Il terzo obiettivo del progetto era infatti capire come contenere la recente introduzione accidentale di Aclees taiwanensis, un coleottero invasivo molto simile al punteruolo della palma e che fa gli stessi danni. «Le larve che vivono nel tronco si nutrono del legno, mentre gli adulti che hanno vita libera provvedono alla riproduzione. È un insetto contro il quale i trattamenti sono inefficaci, di cui non si sapeva nulla, nemmeno la specie, che è stata determinata nel corso del progetto. Lo scopo è stato quello, cercando di capire la sua biologia, di trovare una soluzione».
In Toscana, purtroppo, i fichi sani sono una rarità. I produttori del fico secco di Carmignano sono stati messi in ginocchio dal coleottero. L’ulteriore tragedia è che dalla Toscana, dove è arrivato dal sud-est asiatico nella zona di Pescia con piante importate, si è diffuso ovunque. È recente la notizia dell’arrivo di questo insetto in Calabria.
Dunque, il recupero dei terreni salini da una parte ma dall’altra una problematica emergente. «Il problema grande sono le larve. Inizialmente non si vede niente, poi arriva il decremento della produzione e nel giro di tre-quattro anni la pianta muore. Al momento non possiamo fare niente perché i trattamenti disponibili sono inefficaci – conclude -, ma ci stiamo lavorando. Ad aggravare il tutto c’è il fatto che Aclees taiwanensis non è inserito nella lista degli insetti da quarantena, quindi non vi è l’obbligo di lotta e, mentre per il punteruolo della palma è stato imposto di tagliare le piante, nel caso del punteruolo nero del fico le piante infestate non vengono rimosse, diventando così dei serbatoi per la diffusione della specie».