Di questi tempi sentiamo spesso dire: «Niente sarà più come prima»; una frase forse un po’ retorica, ma che contiene simultaneamente verità, dubbi, nostalgie, persino aspirazioni.
Partiamo dalle verità. Alla fine di quest’anno saremo certamente più poveri rispetto ad un anno fa, visto che mediamente il reddito prodotto si sarà ridotto di oltre un decimo: non era mai accaduto dagli anni ’50 ad oggi.
Passiamo ai dubbi. La crisi economica è provocata da eventi estranei all’economia e potrà risolversi solo quando tali problemi saranno superati. Di qui i dubbi, che continueranno ad alimentare timori e incertezze negli operatori, compromettendo la ripresa dell’economia.
E poi le nostalgie. La dimensione della crisi è tale da farci rimpiangere il passato; vorremmo cioè tornare al pre-Covid. Nostalgia del tutto giustificata dal punto di vista sanitario, un po’ meno da quello economico visto che l’Italia, nell’ultimo quarto di secolo, è stato il Paese europeo che è cresciuto di meno. Ritornare al pre-Covid vorrebbe dire ritornare ad una situazione di crescita stentata, quindi non particolarmente desiderabile.
Da quest’ultima constatazione nascono le aspirazioni. Ovvero la volontà di trovare un nuovo sentiero di crescita su cui incamminarsi. Non si tratta di un sogno impossibile, perché la crisi sanitaria ha smosso gli animi dei nostri partner europei, spingendoli ad abbandonare la politica di austerità seguita per troppo tempo e particolarmente gravosa per i Paesi – come l’Italia – ad alto debito pubblico.
Col Recovery Fund è stato messo in campo un ammontare di risorse da far impallidire il famoso Piano Marshall. Il tentativo è quello di far uscire l’economia dalla prolungata trappola della liquidità in cui si trova impantanata da tempo, impostando una politica fortemente espansiva. Ciò dovrebbe consentire, soprattutto ai Paesi più colpiti, di rilanciare la propria economia con un nuovo piano di investimenti rivolto, da un lato, a sostenere l’ammodernamento del sistema attraverso la digitalizzazione, dall’altro a impegnarsi per il miglioramento dell’ambiente, messo a dura prova dai cambiamenti climatici.
A tutto ciò si aggiunge il tema dell’equità, dell’inclusività e della sicurezza, centrale non solo dal punto di vista etico ma anche da quello economico, perché crea un clima di maggiori certezze e quindi favorisce l’evoluzione della domanda, quella di investimento e quella di consumo.
In questo quadro potremo comprendere quale ruolo potrebbe avere la distribuzione commerciale: quello di garantire prodotti di sicura qualità ad un prezzo accettabile, alimentando il più possibile anche filiere locali. Nessuno di noi auspica un ritorno all’autarchia, ma non vi è dubbio che in alcuni casi la filiera corta garantisca la certezza degli approvvigionamenti, la maggiore possibilità di controllo della qualità dei prodotti, il rispetto delle regole sul lavoro, un impatto ambientale più contenuto (non solo per la riduzione del trasporto, ma anche per il maggior controllo dei metodi di produzione).
Infine – e non è poco – garantisce anche una maggiore occupazione locale.