«Rettrice, certamente rettrice»: il dubbio non sfiora neppure Alessandra Petrucci, che appena eletta ha mandato in pensione il titolo di rettore, scegliendo di farsi chiamare con la desinenza al femminile e ottenendo di cambiare l’indirizzo di posta elettronica dell’Università di Firenze in rettrice@unifi.it. «Perché anche le parole contano e vanno usate nel modo giusto». D’altronde è la prima donna a essere stata eletta al vertice di un’istituzione, come quella fiorentina, prestigiosa e anche antica «perché non tutti sanno che è fra le prime a nascere nel Medio Evo». In campagna elettorale disse che avrebbe dato un contributo femminile nella sua gestione, in particolare implementando il rapporto con la società civile, anche in virtù del fatto che è docente di statistica sociale, «una materia che permette di conoscere altre discipline, studiandone i riflessi sulla società – spiega Petrucci -. Ad esempio quelli dell’istruzione e dell’educazione, ma anche delle carriere universitarie, attraverso lo studio delle modalità di conciliazione fra vita privata e vita professionale delle giovani ricercatrici».
Se le chiediamo quali sacrifici ha fatto per poter svolgere il suo lavoro di ricercatrice e poi professoressa, Petrucci dice:«I sacrifici sono utili e comunque io mi ritengo molto fortunata, perché ho trovato comprensione sia nella mia famiglia d’origine quando, pur essendo io ingegnere, ho scelto di dedicarmi alla ricerca, e poi da mio marito, che mi ha sempre supportato: questo è fondamentale per conciliare vita privata e professionale, dovrebbe essere così per tutti». Oggi sta crescendo il numero delle ragazze che scelgono discipline scientifiche e tecnologiche, le cosiddette materie Stem, ma sono sempre una minoranza rispetto ai ragazzi. «Le statistiche ci dicono che c’è un aumento delle donne, ma non ci possiamo fermare ed è importante combattere l’autolimitazione che le stesse ragazze si pongono nel percorso scolastico e che ha radici culturali profonde -conclude Petrucci -. È un punto critico che è necessario superare perché finalmente ciascuno possa seguire la propria vocazione».
Remi rosa
«Da sempre pronta a interessarsi a idee nuove, andando spesso controcorrente. Dalle mode agli studi le sue scelte furono sempre ardite»: nel ricordo della figlia Martha Specht, Flaminia Goretti de Flamini ci appare agli inizi degli anni Venti con i capelli corti alla maschietta e lo “scandaloso” tirabaci sulla tempia. Non è difficile immaginarla qualche anno più tardi sulla yole (imbarcazione con quattro vogatori e un timoniere) della Canottieri Firenze, mentre incita sotto il Ponte Vecchio le compagne a vogare sempre più forte.
Figlia del conte Goretto Goretti de Flamini, primo campione italiano nel 1895 di questo sport per la società fiorentina di cui fu anche presidente, la nobile e intraprendente signorina fu una pioniera del canottaggio al femminile. Prima allenatrice e prima dirigente in Italia a sfidare i pregiudizi e le abitudini consolidate di una disciplina che nasce nell’Ottocento nelle prestigiose università maschili inglesi e che solo nel 1976 ammette le prime competizioni in rosa alle Olimpiadi di Montreal.
Dopo l’oro di Tokyo conquistato nel doppio Pesi Leggeri Femminili da Federica Cesarini (Fiamme Oro) e Valentina Rodini (Fiamme Gialle), la Federazione Italiana Canottaggio ha deciso di intitolare proprio a Flaminia Goretti de Flamini la classifica a punti femminile per società che viene attribuita ogni anno a livello nazionale. Il 18 marzo a Firenze, all’Auditorium di sant’Apollonia, sarà l’occasione per ricordarla e celebrarne l’intraprendenza insieme alle campionesse olimpiche e alle altre componenti della nazionale italiana femminile, che è sponsorizzata da Coop. Infatti il logo campeggia sul body azzurro in materiale tecnico e traspirante, certamente diverso da quelli che indossavano Flaminia e le sue compagne vogatrici e che, come ricorda la figlia, attiravano sguardi e battute dalle spallette sui lungarni.
La vita di Flaminia fu un susseguirsi di scelte coraggiose, diventò ostetrica e poi volontaria della Croce Rossa sulle navi ospedale che durante la seconda guerra mondiale attraversavano il Mediterraneo fra il nord Africa e Napoli e fu decorata con la Croce di Guerra al Valor Militare. A lei si deve anche la nascita del Giardino dell’Iris a Firenze nel 1954.
La strada per Marte
«La domanda non è se andrò nello spazio, ma quando». Ilaria Cinelli, 35 anni, è sicura che arriverà anche per lei il momento di vivere la sua avventura lontano dal pianeta Terra e da Montelupo Fiorentino dove risiede. E lo farà da scienziata, non da turista spaziale. Per il momento però deve accontentarsi delle simulazioni, di cui è stata diverse volte comandante, della Mars society,. Si tratta di un’organizzazione non profit internazionale, nata negli Stati Uniti nel 1998 su iniziativa di Robert Zubrin per promuovere l’esplorazione di Marte, che gestisce delle stazioni sparse nei diversi continenti dove squadre formate da 7 persone, per lo più ricercatori ma non solo, sperimentano le condizioni di vita nello spazio per due o tre settimane. La più famosa è nel deserto dello Utah e qui Ilaria ha trovato il modo di applicare i suoi studi in ingegneria biomedica, condotti all’Università di Pisa e al King’s College di Londra: «In assenza di gravità o in iper gravità sono molti i cambiamenti che avvengono nel nostro organismo: si verificano problemi cardiovascolari, difficoltà nella visione, anche il cervello cambia leggermente forma, ma l’aspetto incredibile è che dopo un po’ il corpo umano si adatta. Studiare queste mutazioni può essere utile per conoscere e intervenire in maniera efficace su malattie ancora senza cura».
Il bello di Ilaria è che quando ci racconta delle sue esperienze professionali lo fa con un entusiasmo davvero incontenibile. Se le chiediamo per quali motivi vuole andare nello spazio, risponde: «Perché credo che possa aprire numerose porte per le persone sulla Terra. Sono sempre stata affascinata dallo spazio e il mio campo di lavoro è proprio quello della medicina aerospaziale, in questo momento mi occupo di quali potrebbero essere i problemi dentali. Più persone vanno nello spazio meglio è, perché più è varia la popolazione meglio possiamo studiare le diverse risposte alle condizioni di vita di un ambiente non terrestre. Lo spazio – conclude – sarà al centro della vita di tutti, prima di quanto crediamo».