Niccolò Caciolli, fiorentino di neanche trenta anni e già tanta vita da raccontare. La parte più intensa, forse, almeno a livello professionale, è capitata improvvisamente negli ultimi due mesi. Niccolò, infatti, è uno degli infermieri che da metà marzo lotta in prima linea contro il Coronavirus, nel reparto di rianimazione Covid 19 dell’ospedale di Prato.
Una lotta difficile, piena di rischi ma anche di soddisfazioni, iniziata a pochi mesi dal rientro in Italia dopo quattro anni passati in Inghilterra, fra triage di chirurgia di emergenza e coordinamento in un ospedale ortopedico oltremanica.
Niccolò, da una settimana siamo nella fase due. Per i cittadini significa più libertà di muoversi, più persone per strada, più normalità. Per voi infermieri cosa significa fase due?
Non nascondo che, anche parlando con i colleghi, per noi la fase due è in parte una fonte di preoccupazione. Negli ultimi giorni abbiamo notato un netto miglioramento della situazione in terapia intensiva, con la diminuzione dei ricoveri nel reparto. Sappiamo tutti che se con l’allentamento del lockdown la popolazione non dovesse attenersi strettamente alle regole, ci potrebbe essere un nuovo aumento dei contagi e delle ammissioni in terapia intensiva. Come cittadini, anche noi vediamo come una cosa positiva il fatto di poter riprendere alcune abitudini della propria vita, sempre a patto, ovviamente, di rispettare le precauzioni necessarie.
Dall’inizio della pandemia, quali sono stati i momenti più difficili?
A livello personale, è stato complicato rinunciare quasi totalmente alle relazioni sociali. Dal momento in cui sono entrato a lavorare nel reparto di terapia intensiva mi sono trasferito e sono andato a vivere da solo, per proteggere la mia famiglia. A livello professionale, la fase più dura è stata quando c’è stato il picco dei pazienti in rianimazione. Erano davvero tante le persone che avevano bisogno contemporaneamente di un’alta intensità di cura, poi qualcuno ce l’ha fatta e qualcun altro purtroppo no.
E i momenti più belli?
Quando hai gratificazioni e forme di riconoscenza, da parte di pazienti e anche da parte di colleghi, e quando vedi i miglioramenti. Ad esempio non mi dimenticherò mai quando un paziente che era stato intubato da noi ci ha mandato un suo selfie nel quale si vedeva che stava tornando a casa. Finalmente ce l’aveva fatta!
Appena rientrato dall’Inghilterra, che 2020 ti aspettavi e che 2020 è stato?
Sono rientrato nel 2019 per terminare il mio percorso di studi e dare l’orale, speravo di iniziare l’anno con una buona notizia, che c’è stata perché l’esame è andato bene. Certo non mi aspettavo che sarebbe iniziata l’emergenza e che avrei subito iniziato a lavorare in rianimazione, chiamato con solo una settimana di anticipo. Non avevo ancora avuto esperienze in area critica e devo ammettere che all’inizio ero anche io un po’ spaventato, ma adesso sono molto contento di aver accettato e di essere stato utile alla sanità della mia regione.
Il tuo futuro a breve, finita l’emergenza, come lo vedi?
Spero di poter rimanere nel reparto di terapia intensiva e vorrei continuare a formarmi come infermiere di rianimazione. Poi vedremo.
Torniamo indietro di qualche anno: perché hai scelto di fare l’infermiere?
Quando ero al liceo, il padre del mio migliore amico mi mise in testa di provare a informarmi sulle possibilità di intraprendere un percorso nella sanità. Da lì mi ha sempre affascinato il settore medico e in particolare quello infermieristico. Quando poi mi sono trovato a fare il mio primo tirocinio, che rappresenta il momento in cui ti confronti davvero con quello che farai, ho capito di aver compiuto la scelta giusta.