Un rettangolo di pasta fritta dalle mille sfaccettature. Perché quando si tratta di peccati di gola, l’espressione “parla come mangi” calza a pennello. Qui in Toscana i dolci tipici del carnevale sono conosciuti soprattutto come cenci, per la forma che richiama i brandelli di stoffa, ma altrove le sottili e friabili strisce ricoperte di zucchero a velo hanno nomi tra i più diversi.
Dagli antichi Romani all’Artusi
Molti fanno risalire questa tradizione agli antichi Romani, che erano ghiotti di frictilia, pezzi di pasta fritti nel grasso di maiale. Erano distribuiti alla folla durante i Saturnali, feste popolari che ricordano molto il nostro carnevale. In tempi moderni la fortuna dei cenci è dovuta in particolare al padre della cucina italiana: Pellegrino Artusi è stato uno dei primi a proporre al grande pubblico la ricetta nella sua Scienza in cucina, scegliendo proprio il termine toscano. Se Manzoni sciacquò i panni in Arno per i Promessi Sposi, Artusi attinse al fiorentino per il lessico gastronomico.
«Grazie a questa scelta i cenci hanno avuto una discreta diffusione in Italia all’inizio del Novecento e si ritrovano anche in ricettari post-artusiani fuori dalla Toscana» spiega la linguista Monica Alba, ricercatrice all’Università per Stranieri di Siena e collaboratrice dell’Accademia della Crusca. «Alfredo Panzini, nel suo Dizionario Moderno, primo repertorio di neologismi del Novecento, include la locuzione “cenci fritti”. Nonostante ciò, oggi la parola non è diffusa fuori dalla Toscana e questi dolci sono chiamati nel resto d’Italia con un’infinità di nomi».
Chiacchiere e bugie
Paese che vai, cencio che trovi, potremmo dire. Gli esperti li chiamano “geosinonimi”, ossia termini che indicano la stessa cosa, ma che cambiano di zona in zona. I dolci carnevaleschi sono l’esempio più noto.
«Alcune denominazioni ricordano la forma del dolce, i cenci toscani appunto, i galani del Veneto o le lattughe lombarde – dice Monica Alba -. In altri casi si fa riferimento alla friabilità, come i crostoli e i grostoli del Centro Nord, in altri ancora il termine va letto in senso figurato, ad esempio le bugie liguri e piemontesi, gli intrigoni dell’Emilia e le frappe laziali. Oggi la parola più comune è chiacchiere, dalla Lombardia fino alla Calabria e alla Sicilia, e si rifà al vuoto del contenuto del cicaleccio carnevalesco».
La ricetta dell’Artusi
A guardar bene le ricette sono simili, ma non identiche. Ogni regione ha la sua variante linguistica e culinaria. In Toscana si fa riferimento per lo più all’Artusi. Secondo la ricetta 595 della Scienza in cucina i cenci si preparano con:
- 240 grammi di farina,
- 20 di burro, altrettanti di zucchero,
- due uova e un cucchiaio di acquavite.
Si lavora molto la pasta con le mani, si lascia riposare, poi si taglia con la rondella per ottenere il classico profilo smerlato e in seguito le strisce vengono fritte. E per finire una spolverata di zucchero a velo. Artusi non ce ne vorrà, ma oggi c’è chi preferisce ricoprirli con il cioccolato. A carnevale, si sa, qualche sgarro è concesso.
Nei Coop.fi, quelli del Banco del Gusto
Il segreto per creare dei cenci dorati e croccanti sta nel giusto equilibrio fra ingredienti dell’impasto, spessore della sfoglia e tempo di frittura. Per questo ogni laboratorio di pasticceria custodisce gelosamente la ricetta.
I cenci del Banco del Gusto, presenti nei Coop.fi, sono preparati da un fornitore toscano, senza olio di palma, senza conservanti o aromi artificiali. Le materie prime sono di qualità e l’aggiunta di vino bianco e rum dà un tocco di sapore in più.
Disponibili nella versione classica, con una spolverata di zucchero a velo, oppure ricoperti da una golosa glassa al cioccolato.