L’infiltrazione da parte della ‘ndrangheta nel mercato ortofrutticolo di Milano o quella di mafia e camorra nel mercato di Fondi, in provincia di Latina, o ancora in quello di Vittoria, in Sicilia, ci raccontano che le mafie si cibano anche di prodotti agricoli. Come raccontano alcune indagini su Cosa nostra, clan dei “Casalesi”, cosca Piromalli.
«La compravendita dei prodotti ortofrutticoli all’ingrosso avviene spesso a prezzi che non restituiscono al coltivatore nemmeno il costo del lavoro. Di qui l’ulteriore conseguenza dello sfruttamento della manodopera, che è soprattutto fatta di immigrati che si adattano al lavoro sottopagato e senza alcuna copertura previdenziale. Su questi elementi di illegalità si fonda l’infiltrazione delle mafie nel settore alimentare» spiega il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho.
Quali condizioni del mondo agricolo favoriscono questa infiltrazione?
In primo luogo l’isolamento del coltivatore, che si trova molto esposto a rischio di mafia, camorra, ‘ndrangheta. Quanti omicidi sono avvenuti nei confronti di coltivatori diretti che non avevano osservato le indicazioni, spesso implicite, delle organizzazioni criminali! Il terreno non è protetto e quindi consente facilmente una reazione delle cosche nei confronti di chi non si adegua alle indicazioni che provengono da determinati centri di potere. Da parte loro, poi, i soggetti mafiosi a volte si mimetizzano dietro consorzi, false cooperative, soggetti economici che hanno una tradizione, e possono così controllare il mercato. Accade per il calcestruzzo, ma anche per i prodotti ortofrutticoli. Tutti sono costretti ad aderire, ma poi chi ne beneficia è il soggetto mafioso.
I prezzi sono talmente bassi che parlano da soli…
È chiaro che sono determinati da soggetti rispetto ai quali chi vende non può rifiutare quel prezzo.
Che ruolo hanno i gruppi della grande distribuzione organizzata? Possono svolgere un’azione di controllo?
Un meccanismo di controllo è necessario, perché altrimenti il coltivatore diretto sarà sempre costretto a utilizzare manodopera non regolare. Ci sono infiltrazioni mafiose sia dal lato del caporalato, che svolge il compito illegale di intermediazione di manodopera irregolare, che dal lato dell’acquisto del prodotto: alcune indagini hanno dimostrato come ‘ndrangheta, camorra, Cosa nostra, siano entrate anche nei grandi centri di distribuzione alimentare. Non possiamo generalizzare, pur tuttavia sono emersi casi specifici in cui a investire in questo settore erano proprio le mafie, che vanno dove ci sono occasioni di guadagno e possibilità di far circolare denaro.
È necessaria una filiera etica?
Una filiera etica che guardi però ai singoli comportamenti e alle singole organizzazioni, alle regole di trasparenza e di correttezza: sarebbe una conquista straordinaria. La magistratura interviene dopo, a fatti avvenuti, a colpire la patologia. Nel settore agricolo, e in particolare nella gestione del lavoro, servirebbe un ispettorato del lavoro che si recasse sui campi. Se ciò avvenisse, i coltivatori non si avvarrebbero più di manodopera irregolare, di immigrati senza permesso, non ci sarebbe più lo sfruttamento del lavoro, né le grandi truffe a danno dell’ente previdenziale. Ci vorrebbero verifiche effettive, così come avviene nelle altre tipologie di imprese.
Perché la regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari è uno strumento utile per spezzare il legame tra lavoro nero, sfruttamento e infiltrazione mafiosa?
Nel momento in cui l’immigrato non è posto sotto la tagliola del rilevamento della sua irregolarità, può finalmente far valere i propri diritti. Fra cui quello al lavoro, un diritto riconosciuto dalla Costituzione, e al giusto salario. Con un lavoratore regolare, non è più possibile uno sfruttamento puro e semplice, perché altrimenti lo stesso immigrato finirebbe per perdere la stessa regolarizzazione. Il lavoratore inoltre avrà diritto al proprio medico, alle medicine, alle prestazioni sanitarie. Chi poi si sente cittadino, effettivamente titolare di diritti, può anche far valere le sue pretese nel momento in cui si vede violato nei propri diritti, primo fra tutti quello a un salario giusto.
(Toni Mira è caporedattore e inviato speciale del quotidiano “Avvenire”)