Fra le sue opere più famose ci sono L’epoca delle passioni tristi, Funzionare o esistere, La tirannia dell’algoritmo. Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista, è uno dei grandi pensatori del nostro tempo e l’abbiamo raggiunto virtualmente nella sua casa di Parigi per una riflessione sul periodo che stiamo vivendo e per approfondire in particolare il tema dei giovani e della scuola.
Con il collettivo Malgré Tout ad aprile avete lanciato “Un piccolo manifesto in tempi di pandemia”. Per dire cosa?
È stata una reazione spontanea, nata dall’esigenza di riflettere su un momento storico importante, mentre ci eravamo immersi. La novità non era la pandemia – ce ne sono già state due a distanza ravvicinata nel ‘57 e nel ‘68 -, ma il fatto che stiamo vivendo un passaggio, quello verso il mondo del controllo, del bio-potere, di una fragilità estrema dell’ecosistema dominato dagli uomini e ci stiamo avviando verso un punto di non ritorno.
Cosa intende per punto di non ritorno?
Stiamo sperimentando la fragilità di questo modo di produrre e intendere la vita, che ci vede schiacciare il vivente e la natura. La sfida è quella di ripensare un paradigma che ci veda in relazione con il mondo, in continuità con la natura, non intenti a dominarla. Se non riusciremo a trovare una nuova alleanza con la natura, questa allerta sarà solo la prima. Non possiamo infatti negare che la pandemia abbia delle cause ecologiche, legate alla promiscuità fra le specie. Il punto di non ritorno lo stiamo sperimentando qui e ora e non parlo di fantascienza.
Abbiamo quindi bisogno di un uomo che si metta in gioco?
La sfida vera è vedere se siamo capaci di tornare con la nostra umanità a essere una specie dentro l’ecosistema, una specie fra le altre e non quella che si fa soggetto della storia e vede il resto del mondo come un oggetto da manipolare.
Nel confronto tra fragilità umana e mondo perfetto delle macchine, sembra non esserci gara…
L’essere umano non può essere separato dagli strumenti che utilizza, c’è una sorta di co-evoluzione che fa sì che l’uomo di oggi non sia quello di tremila anni fa. Come l’uomo modifica la tecnica, così la tecnica modifica gli esseri umani. Ciò non toglie che negli ultimi 40-50 anni abbiamo assistito a una “algoritmizzazione del mondo”, una predominanza della tecnica rispetto alla quale ci vuole prudenza. Prendiamo il caso della pandemia: molti sostengono che ne usciremo solo quando ci sarà il vaccino. Ora, il vaccino è necessario e desiderabile, ma non è la soluzione, anzi è parte del paradigma che ci vede percorrere la strada sbagliata. Pensiamo di trovare il vaccino e continuare come prima, senza accorgerci che il mondo attuale non è vivibile.
Quale ruolo può svolgere la scuola in questo processo? Cosa ne pensa della cosiddetta pedagogia delle competenze?
Sicuramente non vogliamo bambini incompetenti, questo è certo, ma il pensiero della pedagogia delle competenze vede gli studenti come dei computer, dove è opportuno eliminare le competenze inutili per far spazio a quelle utili. Ma l’essere vivente non funziona così. Per educare i bambini bisogna cercare le loro radici e affinità elettive, far loro desiderare di imparare: se non hanno curiosità saranno solo più indeboliti. Del resto, essere giovani significa esplorare il possibile, quindi esistere. Oggi vige la nuova religione dell’imperativo economico a cui sacrificarci, ma tutti noi, adulti, genitori, educatori, dobbiamo andare contro questo oscurantismo. L’economia c’è, ma non deve guidare cosa succede negli ospedali, nelle scuole e nella vita. La pedagogia delle competenze ci invita a non perdere tempo con competenze inutili, ma quelle utili a cosa sono utili in realtà?
Con le scuole chiuse per Covid-19, ha preso piede la didattica a distanza, cosa ne pensa?
Imparare è un atto antropologico molto complesso, non si tratta di trasmettere informazioni e basta. Durante la pandemia, ben venga la didattica a distanza, ma attenti a pensare che l’educazione si risolva in questa modalità di passaggio di informazioni attraverso un canale digitale. L’educazione è un fatto fisico, di corpi fra corpi che convivono in uno stesso spazio concreto, dove tutto partecipa. Perfino i muri della scuola e le aule sono qualcosa che lega e fa imparare ai nostri figli.
Per ridurre il pericolo di contagio si parla di gruppi più piccoli di studenti, selezionati per il livello di apprendimento. Non vede il rischio di una scuola meno inclusiva?
Penso che la classe debba essere concepita come una unità organica, dove tutti sono necessari per gli altri. Non si possono classificare i bambini per “livello di efficacia”: chi è meno portato per la matematica, sarà più bravo in un’altra materia e anche se non fosse forte in niente, servirà per imparare insieme la vita di comunità, per imparare a convivere e a essere solidali. Può sembrare idealistico, ma è questa la realtà del vivente. Diceva Margaret Thatcher che la società non esiste ed esistono solo gli individui, ma in realtà la società esiste. Se vogliamo distruggerla, facciamo pure una pedagogia delle competenze, separando i bambini più efficaci dagli altri, altrimenti pensiamo a una scuola come un tutto organico.
Ha affermato che ci si dimentica di sperimentare che c’è una vita prima della morte. Cosa significa?
Non solo le grandi religioni monoteiste ci dicono di sacrificare la vita perché quella vera arriverà dopo la morte. Anche la nuova religione economicista ci invita ad agire per il dopo, ci dice di obbedire all’imperativo economicista in vista di un dopo che non arriva mai. Ecco, il mio invito vuole essere a esistere in questa vita, che è certa, prima della morte.