Altra vittima illustre del Covid? Il Carnevale, purtroppo: nel 2021 festeggiamenti e sfilate annullate o rimandate a settembre come a Viareggio – per il 2022 mentre scriviamo devono essere comunicate le ultime decisioni -. A prescindere dalla situazione contingente e dalle eccezioni di alcune località, però, questa ricorrenza sembra aver comunque perso un po’ di smalto.
«Una volta era la festa dei sensi per antonomasia, si mangiava in abbondanza e le regole venivano meno, cadevano i tabù, anche sessuali, in una sorta di confusione orgiastica – racconta l’antropologo, Marino Niola -. Oggi la carica eversiva si è persa, anche dal punto di vista alimentare, perché siamo nella società dell’opulenza e viviamo l’eccesso tutti i giorni, si può dire che abbiamo spalmato il Carnevale su tutto il calendario».
Passato il tempo degli scherzi e delle burle di boccacciana memoria, o i travestimenti in stile Casanova, oggi dunque il Carnevale è diventato soprattutto una festa per bambini e mascherine. «Il Carnevale è stato istituzionalizzato dai Comuni, questo ha permesso alla festa di arrivare fino ad oggi, mentre altrimenti in molti casi sarebbe addirittura scomparsa, diventando una sorta di bene culturale di archeologia dei costumi e dei comportamenti. Però, questa istituzionalizzazione ha tolto quella linfa vitale che gli veniva dall’invenzione popolare e che faceva del Carnevale una specie di pentola in ebollizione. La festa dei tempi nostri è da inventario dei beni culturali, abbiamo le sfilate dei carri allegorici, bellissime in molti casi, come a Viareggio, ma non sono più i carnevali del passato».
Martedì grasso, ma non troppo
«Dal punto di vista alimentare il Carnevale era il tempo del grasso, tanto è vero che si apre il 17 gennaio, in occasione della festa di sant’Antonio Abate, conosciuto nelle tradizioni popolari italiane come santo del porcello, perché spesso viene raffigurato con un maialino ai suoi piedi. Questo ci fa capire come questa festa fosse a metà fra il religioso e il civile, fra il sacro e il profano».
I dolci di Carnevale
Una tradizione però resiste ed è quella dei dolci di Carnevale. «Il dolce si consumava solo in occasioni di festa, era impensabile un tempo chiudere il pasto con un dessert come si fa oggi, se non in rarissime occasioni. Per questo i vari tipi di dolce erano legati alle ricorrenze: a Pasqua, al santo patrono e così via. Questo legame stagionale sopravvive ancora oggi, per cui passiamo dalla profusione dei dolci natalizi, panettoni, pandori, panforti, pan pepati, struffoli, cassate e, neanche il tempo di smontare l’albero, ecco che arrivano zeppole, chiacchiere, cenci e a seguire frittelle e gli altri dolci di San Giuseppe e poi della Pasqua e così via. Se si vuole avere un’idea di che cos’era la cucina italiana regionale e conviviale, bisogna guardare ai dolci e da questi ripartire con un’idea di stagionalità che a mio avviso in cucina rimane fondamentale».
I riti del futuro
Ma ci domandiamo e lo chiediamo all’antropologo: quali riti collettivi sono sopravvissuti? «Il Natale ad esempio: la nostra è una società individualista e narcisista che fa fatica a riconoscersi nelle grandi folle, ci sono però occasioni in cui c’è voglia di fare comunità e di aprirsi verso l’altro. Lo vediamo un po’ meno a Pasqua, più a Ferragosto, una festa in fieri che non ha ancora un codice o un menù preciso, ma gli italiani la stanno costruendo mettendo insieme pezzi di altre feste: anche per il cibo, nel pranzo di Ferragosto c’è un po’ di tutto, perfino i piatti tipici di altre occasioni.
Anche le feste dei partiti, che fino agli inizi degli anni Duemila rappresentavano una sorta di rito collettivo, hanno perso la loro forza. Ma c’è comunque voglia di aprirsi, siamo una società in transizione, da società di massa siamo diventati una folla di individui che stanno cercando il bandolo della matassa – conclude Niola – per trovare nuovi modi di stare insieme».