Chi sono i nuovi poveri che lavorano e qual è il ruolo della famiglia alle prese con i cambiamenti della società? Le risposte nelle parole di Chiara Saraceno, sociologa dell’Università di Torino, che abbiamo incontrato alcune settimane fa all’ateneo fiorentino, dove ha tenuto una lezione su povertà e lavoro.
«Prima della crisi, ci si illudeva che all’aumento dell’occupazione sarebbe corrisposta una diminuzione della povertà, ma questo non è successo e non solo a causa della crisi economica, che ha comunque acuito il fenomeno – spiega Saraceno -. L’idea che il lavoro “abolisse la povertà” non ha funzionato per diversi motivi, fra cui, ovviamente, i salari bassi, ma anche la tendenza a famiglie monoreddito. Se il lavoratore povero a livello individuale è più spesso giovane o donna, magari con un basso tasso di istruzione, la povertà legata al lavoro misurata su base familiare colpisce soprattutto gli uomini nelle fasce di età intermedia, quelli che lavorano ma rappresentano l’unica entrata in famiglia, e riguarda soprattutto le famiglie più numerose, dai tre figli in su. Non è un caso se più di un quinto dei poveri assoluti sono minori (e quasi la metà insieme ai giovani fino a 34 anni).
Quanto incide l’attuale condizione lavorativa femminile sulla questione demografica?
I carichi famigliari pesanti, non compensati da adeguate politiche di conciliazione fra tempi di vita e tempi di lavoro, incidono sicuramente sul calo demografico a cui stiamo assistendo. Si sta sempre più riducendo la fascia della popolazione in età riproduttiva e a questo si sommano la disoccupazione e la precarietà lavorativa giovanile. Inoltre, è molto difficile per le giovani donne conciliare maternità e lavoro.
Nonostante un cambiamento che ha visto negli ultimi decenni anche in Italia una maggiore collaborazione per i compiti relativi alla casa da parte degli uomini, in particolare da parte dei padri nella cura dei bambini piccoli, alle donne continuano a restare la maggior parte dei lavori di cura, sia per i bambini, sia per gli anziani. Il congedo parentale per i papà resta una questione di ore o al massimo giorni.
Mancano i servizi per la prima infanzia e anche le scuole a tempo pieno sono in diminuzione e al sud non esistono proprio. Se non ci fossero i nonni, e soprattutto le nonne, molte mamme non potrebbero rimanere nel mercato del lavoro. Ma le nonne, oltre a trovarsi spesso ancora nel mercato del lavoro anche a motivo dell’innalzamento dell’età alla pensione, hanno talvolta anche responsabilità di cura verso altri anziani. Emergono così quelle che io chiamo le “nonne sandwich”, schiacciate fra l’accudimento dei nipoti e dei genitori.
In questo contesto, come cambia la famiglia?
La famiglia in questo momento è un’entità in forte tensione. Si conserva come istituzione importante sia per i suoi componenti che per la società, ma è messa a dura prova, perché molto ci si attende dalla solidarietà e dal lavoro di cura familiare, ma poco si fa sia per sostenerlo sia per favorirlo. Al contrario.
Le recenti riforme pensionistiche, per fare un esempio, hanno allungato la vita lavorativa, costringendo spesso i nonni a pensioni anticipate e magari economicamente svantaggiose per poter seguire i nipoti, compito che in assenza di servizi per l’infanzia adeguati diventa un altro vero e proprio lavoro, una necessità più che una scelta. L’assenza di sostegni seri per chi ha figli – trasferimenti monetari non occasionali e universalistici, servizi educativi di qualità, flessibilità degli orari di lavoro – certamente non favorisce la fecondità.
Nonostante le difficoltà, la famiglia continua a cooperare?
La famiglia, come istituto solidaristico, è il luogo della cooperazione per eccellenza, dove soldi e cure si redistribuiscono e ognuno contribuisce secondo le proprie capacità, o almeno così dovrebbe essere. Oggi la famiglia è più cooperativa, perché generalmente meno gerarchica di quella del secolo scorso; ma le reti di sostegno familiari sono sempre state fondamentali e diffuse anche in quei Paesi, come in Scandinavia, dove era prevalente una struttura a nuclei isolati.
Questo può avere anche conseguenze negative, come casi di “burnout” (crolli emotivi, ndr), quando la tensione esplode, oppure quando l’obbligo alla solidarietà, o la dipendenza da questa, diventano una limitazione grave della libertà di scelta.
Come si situa l’Italia nel contesto europeo?
L’Europa è grande e molto diversificata. Anche paragonando l’Italia solo ad altri Paesi mediterranei, come la Spagna o il Portogallo, pur colpiti gravemente dalla crisi economica, dobbiamo constatare un certo ritardo. La Spagna ad esempio è più avanti di noi per quanto riguarda la copertura dei servizi per la prima infanzia e nel settore delle riforme per la non autosufficienza. Non solo, con il governo Zapatero c’è stato un forte ammodernamento della legislazione sui diritti civili, su cui noi siamo ancora a inseguire.
Il quadro non è molto confortante, come ne usciamo?
Combattendo. E lottando per ridurre le disuguaglianze che vincolano gravemente la libertà e il pieno sviluppo delle capacità: fra donne e uomini, tra classi sociali, tra il nord e il sud del Paese; ad esempio sostenendo modelli che vadano bene per tutti, non solo per chi sta meglio. E smettendo di fare, nel migliore dei casi, interventi solo estemporanei (si vedano i vari bonus invece di una riforma seria dei trasferimenti monetari per chi ha figli), nel peggiore controproducenti. Si pensi all’eliminazione dell’Imu in un Paese che non ha altra politica abitativa che quella del sostegno alla proprietà, o alla scarsità di servizi educativi nel Mezzogiorno o, Dio non voglia, alla flat tax a favore dei ricchi e a detrimento di risorse per migliorare il nostro welfare.