Piccolo non vuol dire stupido: il teatro ragazzi è una questione di diritti“. Abbiamo incontrato Renzo Boldrini, direttore artistico del Teatro Comunale Verdi di Santa Croce Sull’Arno e di Giallo Mare Minimal Teatro. Ha lavorato come insegnante di drammaturgia alla Civica Scuola di Animazione Pedagogica del Comune di Milano. Come autore e regista ha firmato spettacoli, in particolare per le nuove generazioni, rappresentati in Italia, Portogallo, Svizzera, Russia, Germania, Polonia e Belgio.
Gli abbiamo chiesto di condividere una riflessione rispetto all’azione dell’educare, così discussa in campo teatrale. Ci siamo chiesti come sia il pubblico del teatro ragazzi, quali stereotipi si annidino in questo tipo di rappresentazione, come la tecnologia possa essere un’alleata. Nella convinzione che il rito dello scambio teatrale non possa esaurirsi mai.
Nel nostro Foyer, siamo arrivati oggi a parlare di un’azione importante: educare. Per te che cosa significa, anche ovviamente rispettivamente al teatro?
Vorrei iniziare parlando del cosiddetto teatro ragazzi. La responsabilità educativa dovrebbe esser innanzitutto patrimonio delle differenti istituzioni culturali, sociali e quelle più specificatamente teatrali. Una responsabilità esercitata nel non considerare in modo puramente residuale l’attivazione di una produzione artistica di qualità destinata alle nuove generazioni. Le arti, compreso il teatro, sono fondamentali nell’educazione permanente degli individui, fin dalla più tenera età, un elemento identitario e di coesione della comunità.
In questa prospettiva va letta quest’area produttiva e progettuale tesa a dialogare con la platea dei più giovani, rispetto al resto del teatro, l’unica esperienza teatrale che utilizza un “per“, un indicatore di rapporto privilegiato con una platea specifica (quanto trasversale) che va dalla primissima infanzia fino alla tarda adolescenza, dagli 0 ai 18 anni. Una platea che, come recitano gli articoli 2 e 4 della Costituzione oltre alla Carta dei diritti dell’Infanzia e della adolescenza dell’Onu, ha il diritto ad una vita culturale di qualità, nel caso specifico di un teatro pubblico che sappia dialogare con i più giovani attraverso le arti della scena.
Nel nostro paese i ragazzi, i bambini, gli adolescenti sono invece destinatari marginali di fruizione artistica qualificata. Il teatro ragazzi in questa battaglia di diritti culturali negati è stato, ed è un presidio di rilevante importanza. All’estero, questo diritto culturale ed educativo è molto più sviluppato, basti pensare ai percorsi museali per bambini e ragazzi che in molti musei del Nord Europa o di cultura anglosassone sono persino talvolta più belli delle sale dedicate al pubblico generalista.
L’obiettivo è quello di usare le arti come strumento attivo per educare l’individuo, fin da piccolo, come parte costitutiva ed essenziale della formazione, permanente, della propria personalità. Purtroppo nel mondo teatrale questa mentalità stenta ad affermarsi e la scena creativa per i ragazzi viene sottovalutata a prescindere dalla qualità degli spettacoli, perché si tende a non riconoscere agli spettatori più giovani lo status culturale di “vero spettatore”. Si pensa a loro come soggetti ai quali, in modo pregiudiziale, spesso sia sufficiente offrire un linguaggio scenico imbonitorio e persino banale, come se piccolo fosse sinonimo di stupido.
Un rivelatore di questo fenomeno è stato lo stupore che si è determinato nell’ambiente teatrale per l’assegnazione nel 2019 da parte di Antonio Latella, del Leone d’Argento della Biennale Teatro di Venezia, al regista belga di teatro ragazzi Jetse Batelaan. Come se qualità artistica e teatro per ragazzi non potessero essere sinonimi.
Credo lo Stato debba considerare la produzione e la diffusione della cultura e dell’arte come un servizio pubblico necessario al pari dell’erogazione della luce e del gas. Una programmazione culturale ha il dovere di puntare sul pubblico giovane, non tanto come investimento o per formare il futuro pubblico del teatro, ma come necessità formativa capace di garantire un presente culturale e di qualità ai cittadini più piccoli, che stanno costruendo la loro percezione del mondo.
Inoltre, sempre a proposito di educazione, vorrei che ci si chiedesse quale è quella forma teatrale, anche quella che rinnega ogni sua deriva pedagogica, che comunque, a suo modo, non sia educativa. È quindi un errore ridurre il teatro ragazzi ad una specifica funzione educativa dimenticando che ogni forma artistica e teatrale a suo modo lo è.
Dicendo teatro ragazzi, stiamo forse generalizzando troppo?
In effetti noi parliamo genericamente di ragazzi, ma ogni fascia di età da 0 a 18 anni, è un mondo diverso. Inoltre è bene evidenziare come l’immaginario bambino ed adolescenziale sia dinamico, mutante. Io ho iniziato a occuparmi tanti anni fa di questa attività proprio per la qualità della ricerca che potevo portare avanti con una platea con immaginari in rapida trasformazione, sia in termini estetici che tematici.
Proprio per questa mobilità, nel teatro ragazzi ancora di più che per il teatro “tout court”, dobbiamo fare attenzione e essere al passo con i contenuti soggettivi, simbolici, straordinari dei nostri referenti che cambiano a una velocità incredibile. Il contesto in cui vivono ora i bambini è molto cambiato: famiglie allargate, una dimensione interculturale, nuove cittadinanze di cui i più piccoli e la scuola sono una frontiere straordinaria. Chi si occupa artisticamente di questi spettatori deve frequentare questi argomenti e deve creare contesti di ricerca attiva insieme a questi referenti.
La sfida artistica, per me, non è solo centrare il cuore di un preciso immaginario con un’opera, ma stare “fra le generazioni”. Non casualmente Teatro fra le Generazioni, è il titolo di un nostro festival, l’unico in Toscana ad occuparsi di questi giovani pubblici. Non dimentichiamoci, infatti, che la platea del teatro ragazzi non è costituito solo di bambini, ma anche di mediatori, gli adulti accompagnatori che esigono dalla performance lo stesso coinvolgimento. Quel fra, esprime quindi un tentativo di complicità, di allargamento di questa platea intergenerazionale tramite opere che comunque nascono con un referente anagrafico prioritario.
Quello del teatro ragazzi è un pubblico straordinario perché “non ha regole”, tende alla festa, ma è anche crudele. Non conosce mediazioni, urla il proprio dissenso, la propria noia, ma allo stesso tempo è un pubblico creativo, dionisiaco, pronto a dialogare senza sovrastrutture e abitudini culturali con qualunque innovazione scenica di qualità. Chi fa teatro ragazzi deve provare a parlare di tutto stando in equilibrio tra narrazioni importanti quanto rischiose, riguardanti ad esempio il razzismo o la pedofilia, sapendo trovare un alfabeto simbolico sostenibile per spettatori così giovani.
Ci racconti alcuni spettacoli che ti hanno particolarmente convinto?
Sulla scia di quello che ho appena detto penso a Fa’afafine: Mi chiamo Alex e sono un dinosauro di Giuliano Scarpinato che ho fortemente voluto nella nostre stagioni. È uno spettacolo che con grande intelligenza e delicatezza parla dell’identità sessuale dei bambini, questione delicata quanto significativa, soprattutto in questa epoca di regressione socio-culturale. C’è voluta la polizia per regolamentare gruppi di cittadini radicalmente oscurantisti che davanti a vari teatri italiani urlavano e inneggiavano indignazione per la presunta manipolazione dei piccoli spettatori.
Poi vorrei citarvi in generale i lavori che ho portato avanti con Giacomo Verde e Davide Venturini relativi alla “scena digitale”: dal Teleracconto del 1986 a Boccascena con Vania Pucci, fino a Storie Zip che nel 1999 vince il Premio Eti-Stregagatto.
Tecno-spettacoli che ponevano e pongono in evidenza una grande urgenza del nostro tempo, ovvero un corretto rapporto fra le tecnologie e nuove generazioni.
Secondo te oggi c’è un argomento più urgente di un altro in teatro da trattare? Ci racconti del tuo storico lavoro su “Romeo e Giulietta”?
Tanti e nessuno. L’esemplarità, a mio giudizio, sta nel modo nel quale oggi riesci a rimettere in gioco un testo, un “plot” composto magari secoli fa.
Romeo e Giulietta: c’è da tremare solo a pensarci. Come si fa a competere con i più grandi maestri che l’hanno messo in scena da Shakespeare in là? Che senso può avere riesumare questa storia in teatro per dei giovani spettatori? Nel 2000 lo feci evidenziando, drammaturgicamente, che Giulietta e Romeo non fosse una storia d’amore ma una storia di conflitti. Immaginai di costruire una doppia scena e una doppia platea, separate fra loro da una serie di sipari.
I due pubblici erano invisibilmente e specularmente contrapposti, separati dai differenti sipari, che durante la performance si trasformavano in costumi, schermi per proiezioni ed ombre. Lo spettacolo iniziava già nel foyer, con le maschere che separavano le coppie e i gruppi di spettatori, per divenire parte della platea dei Montecchi, piuttosto che di quella contrapposta e nemica dei Montecchi. Nelle rispettive e speculari scene, un attore da una parte raccontava di Romeo e, dall’altra, un ‘attrice narrava di Giulietta.
Così iniziavano due spettacoli paralleli, uguali nelle azioni, con continui riferimenti a qualche cosa che stava avvenendo nell’altra parte, quella nemica, nascosta vigliaccamente dietro i sipari. Progressivamente i pubblici si percepivano nemici, mentre i sipari svelavano sempre più precisamente la scena avversaria.
Lo spettatore non doveva mai agire direttamente, ma la composizione scenica e lo sviluppo drammaturgico gli offrivano un ruolo talmente forte e significativo che si sentiva parte della vicenda con un ruolo preciso: essere partigiano dei Montecchi o dei Capuleti. Così da stare non davanti, ma dentro la storia.