La piena padronanza dimostrata da Dante nell’uso dei lessici tecnici, delle arti e delle scienze, cui spesso conferisce alta dignità letteraria decretandone l’ingresso nella lingua volgare, è particolarmente evidente nell’ambito della medicina.
La cultura medica di Dante deriva da molteplici fonti: dal continuo e proficuo contatto col mondo dei medici (si pensi in primo luogo che Dante era iscritto a una corporazione, l’Arte dei Medici e degli Speziali) da Firenze fino a Bologna, Padova, Ravenna; ma anche dalla frequentazione di testi che aveva certamente letto negli studi conventuali di Firenze e da un intero patrimonio in lingua latina che circolava anche in sillogi e in volgarizzamenti.
Se già nella Vita Nuova risulta evidente la piena conoscenza del lessico medico, specie nella descrizione della fisiologia della passione amorosa, nella Commedia assistiamo a un impiego straordinariamente vario e creativo di questo vocabolario, selezionato con estrema attenzione al contesto d’uso e al registro che questo richiede. È il caso ad esempio dell’alternanza di due sinonimi che indicano l’organo racchiuso nella cavità del cranio, l’encefalo: cerebro e cervello.
Mentre la forma popolare cervello ricorre, ad esempio, nel canto XXXII dell’Inferno, a indicare l’area anatomica esatta in cui il conte Ugolino addenta l’arcivescovo Ruggieri (si tratta del celebre «fiero pasto» di Inf. XXXIII 1), cioè nel punto, delicato e vitale, dove il cervello si congiunge con la nuca (sostantivo che indica il midollo spinale della regione del collo), cerebro, latinismo da cerebrum, è scelto in due contesti che richiedono un registro ben differente: il primo è Inf. XXVIII 140 («perch’io parti’ così giunte persone, / partito porto il mio cerebro, lasso!, / dal suo principio ch’è in questo troncone»), dove la scelta del cultismo cerebro è dovuta alla nobiltà e alla cultura di chi lo pronuncia, Bertran de Born, uno dei più grandi poeti in lingua provenzale; il secondo è la dissertazione di Stazio sull’origine dell’anima di Purg. XXV 69 («e sappi che, sì tosto come al feto / l’articular del cerebro è perfetto, / lo motor primo a lui si volge lieto»), in cui la scelta della forma colta cerebro è legata al tema del trattato filosofico.
Un esempio eccezionale è poi rappresentato dal canto XXX dell’Inferno, dove spicca la rappresentazione di Maestro Adamo, col suo aspetto abnorme causato dall’idropisia, malattia che, secondo la tradizione galenica, è provocata dalla compromissione di una o più delle quattro facoltà naturali che regolano la generazione degli umori dal nutrimento proveniente dallo stomaco e dagli intestini.
In questo canto troviamo tanti termini appartenenti al lessico della medicina e dell’anatomia, alcuni veri e propri tecnicismi (idropesì, idropico, febbre aguta) altri vocaboli di stampo popolare (anguinaia, ventraia): la grande varietà lessicale della Commedia è evidente in questo caso anche nell’alternanza delle parole ventre, ventraia, epa e pancia per indicare la regione anatomica dell’apparato digerente.
Infine, vale la pena di soffermarsi su due vocaboli, vena e polso, che nella Commedia sono utilizzati secondo una distinzione anatomica ben precisa. Secondo la medicina galenica, che riprende e approfondisce la tradizione alessandrina, la principale differenza tra vene e arterie risiede nel fatto che nelle prime, non pulsanti, scorre lo spirito naturale, mentre le arterie conservano e veicolano lo spirito vitale.
Nel Due e Trecento, la parola vena indicava entrambe le tipologie di vaso sanguigno: la vena vera e propria e la vena pulsante, cioè l’arteria. Nella Commedia la parola arteria non ricorre mai: il significato di ‘vena pulsante’ è assunto, infatti, da polso, che deriva dal latino pulsus, participio di pellere.
Nel canto I dell’Inferno, Dante si rivolge a Virgilio e, riferendosi alla terribile lupa, gli dice:
«Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi» (Inf. I 88-90)
Quest’ultimo verso è divenuto celebre proprio per l’espressione far tremare le vene e i polsi, uno dei più conosciuti modi di dire che hanno origine nel poema dantesco. Quest’espressione, diffusasi poi anche erroneamente con le varianti far tremare le vene ai polsi e dei polsi, è stata spesso interpretata secondo la figura retorica dell’endiadi come ‘le vene dei polsi’. In realtà, la distinzione semantica delle due parole è qui mantenuta: significa infatti che la terribile lupa fa tremare, per la paura sia le vene che le arterie.
( a cura di Chiara Murru)
Riferimenti bibliografici:
- Vittorio Bartoli, L’idropisia di maestro Adamo in Inferno XXX. L’importanza della dottrina umorale di Galeno nel medioevo, in «Tenzone», 8, 2007, pp. 11-29.
- Vittorio Bartoli, Paola Ureni, La malattia di maestro Adamo, in «Studi danteschi», 67, 2002, pp. 99-116.
- Vittorio Bartoli, Paola Ureni, La morte cruenta di Jacopo del Cassero e di Bonconte da Montefeltro («Purg.» V 73-102). Una nuova lettura fondata sulla scienza medica medievale, in «Studi danteschi», 71, 2006, pp. 9-26.
- Donatella Lippi, Dante tra Ipocràte e Galeno. Il lessico della medicina nella Commedia. Schede lessicografiche di Chiara Murru e Postfazione di Giovanna Frosini, Firenze, Pontecorboli, 2021.
- VD = Vocabolario Dantesco, in elaborazione presso l’Accademia della Crusca con la collaborazione dell’Istituto CNR Opera del Vocabolario Italiano, consultabile in rete all’indirizzo www.vocabolariodantesco.it.