«In fama non si vien sotto la coltre». Le paremie dantesche tra i motti delle pale degli accademici della Crusca

Viaggio letterario tra le massime di Dante con gli esperti linguisti dell'Accademia della Crusca

Accademia della Crusca
Accademia della Crusca
Un progetto dell'Associazione Amici dell'Accademia della Crusca, sostenuto da Unicoop Firenze, in collaborazione con gli esperti linguisti dell'Accademia fiorentina, per raccontare e far conoscere il patrimonio storico e culturale della Crusca e la sua attività.

A chiusura di questo ciclo di interventi, dedicati alla lingua di Dante, nell’anno in cui si celebra il settimo centenario della sua morte, non sarà ripetitivo ricordare alcuni dati illustrati da Caterina Canneti nella prima delle “pillole” dantesche pubblicate in questa sede, dal titolo Dante, la Commedia e il Vocabolario della Crusca.

È noto infatti che l’Accademia della Crusca, fin dalle sue origini, ha sviluppato nei confronti di Dante un vero e proprio culto, che ha condotto a risultati innovativi, primo fra tutti l’edizione della Commedia (1595). In particolare, delle 25.056 voci totali che compongono la prima impressione del Vocabolario degli accademici della Crusca (1612), quasi un quarto (per la precisione il 22,85% pari a 5.726 voci) reca citazioni tratte dalla Commedia.

Numerose sono le prime attestazioni e molti i casi di locuzioni e polirematiche risalenti a Dante, ancora oggi vive grazie al “divin poema”: da sanza infamia e sanza lodo (alla voce infamia) a far tremare le vene ai polsi (alla voce vena), da il gran rifiuto (alla voce rifiuto) a Galeotto fu… (alla voce libro). Alcune di esse sono versi passati en bloc in proverbio come Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate (Inf. III 9), Fatti non foste a viver come bruti (Inf. XXVI 119) o Che giova ne le fata dar di cozzo? (Inf. IX 97).

Altre invece nascono da versi danteschi, come Il pane altrui sa di sale (da Par. XVII 58-60), Di libito far licito (Inf. V 56), Vengano le frutta! e Frutta di frate Alberigo, queste ultime formatesi a partire da «i’ son quel da le frutta del mal orto» (Inf. XXXIII 119) dove frutta, stando al commento di Jacopo della Lana, passò immediatamente a designare le bòtte («d’allora in qua fu detto alle bòtte»). È proprio l’immediatezza di cui parla il Lana a farci riflettere sul potere inventivo della Commedia e sulla capacità di Dante di essere un raffinato paremiurgo, responsabile della coniazione di nuove paremie (grecismoche significa ‘proverbio’ in senso lato) o comunque autore concorrente alla loro formazione.

Non mancano poi espressioni e frasi proverbiali che seguono il percorso inverso, e si potrebbe dire da imo a sommo per usare un’altra locuzione legata alla Commedia: non, cioè, frasi d’autore divenute proverbiali, ma proverbi preesistenti di cui l’autore si è servito a fini espressivi. Un esempio è Poca favilla accende fuoco assai che conta precedenti latini (classici e biblici) ed è attestato, oltre che in Dante (Par. I 33: «Poca favilla gran fiamma seconda»), in Cino da Pistoia («Gran foco nasce di poca favilla», nel sonetto Bernardo quel gentil, v. 12); ma si pensi anche a Cosa fatta capo ha, proverbio toscano già in uso all’epoca di Dante, che deriva da un detto memorabile a sua volta dotato di paternità illustre (riconosciuta nel ghibellino Mosca de’ Lamberti secondo le cronache di Ricordano Malispini e di Giovanni Villani) ma comunque precedente il verso dantesco (Inf. XXVIII 107).

Foto di Paolo Rondinelli

Il titolo stesso di questo intervento, dove ci si propone di compiere un primo studio sulle trentasei pale dantesche degli antichi accademici della Crusca (secoli XVI-XVIII), è una paremia attestata nei Proverbi diFrancesco Serdonati, autore-compilatore di quella che si può definire la più ampia collezione paremiografica italiana (26.018 paremie) ad oggi conosciuta. Con più di duecento occorrenze del Dante volgare, la raccoltaserdonatiana contiene la base della paremiografia dantesca, un ambito di studi circoscritto, ancora poco frequentato dalla critica, eppure utile anche in sede esegetica. Solo per fare un esempio, sarebbe più difficile comprendere il senso di Par. XII 114 («sì ch’è la muffa dov’era la gromma») senza conoscere il proverbio Il buon vin fa gromma e ’l cattivo muffa.

Serdonati offre un quadro pressoché esaustivo delle paremie dantesche e aiuta a distinguere ciò che precede Dante da ciò che lo segue con frasi di raccordo, che sono spie interpretative, come: «Verso di Dante» o «Onde disse Dante». Non solo infatti Dante serve a spiegare il senso delle paremie: a volte vale il contrario ed è la paremia a spiegare Dante, come nel caso de Il tordo è rimasto alla ragna o Dare nella ragna, nella pania, nel laccio, nella trappola che glossano Par. IX 51 («che già per lui carpir si fa la ragna»).

Nel caso di In fama non si vien sotto la coltre, siamo in presenza di una paremia che viene da Dante. Serdonati commenta: «La virtù e l’onore non s’acquista con gli agi, ma col sudore e con le fatiche»; e cita Dante, Inf. XXIV 47-48 («… ché, seggendo in piuma, / in fama non si vien, né sotto coltre»). È questo il caso più rappresentativo del rapporto esistente tra le paremie dantesche e l’Accademia della Crusca. Se infatti si prende la pala di Domenico Maria Manni (Il Sofferente), si legge il seguente motto associato all’immagine di una sedia impagliata: Sedendo in piuma in fama non si vien né sotto coltre.

Dunque quella che, sul finire del Cinquecento, era una paremia dantesca diffusasi a livello popolare, due secoli dopo cambia faccia e diventa motto rappresentativo di un bibliofilo erudito, nominato accademico il 22 settembre 1770. Questo passaggio non è di poco conto e dimostra ancora una volta come le paremie, pur riconoscendo nella fissità una delle proprie caratteristiche principali, siano blocchi testuali in realtà mobili che viaggiano nello spazio e nel tempo. Lo slittamento può avvenire da una fonte all’altra, da una cultura all’altra, da un destinatario a un altro, ma anche da una tipologia testuale a un’altra, come, in questo caso, dalla pagina scritta all’impresa della pala lignea.

L’esempio del Manni è il più evidente, ma non l’unico. Altri, meno espliciti, riguardano locuzioni come moneta senza conio (Par. XXIX 126), nella pala di Giuliano Davanzati (Il Gabellato), registrato nell’appendice «Locuz. e fras.» del Vocabolario Dantesco con il significato di «denaro che non ha corso legale»; a tempo (Inf. VII 79; Par. VIII 60), nel senso di ‘al tempo opportuno’, che si trova nella pala di Virginio Orsini (L’Ozioso) ed è alla base di paremie come A tempo (viene quel che Dio vuole); infine a poco a poco (Par. XXX 13), motto di Domenico Risaliti (Il Diloppato) che ricorre in A poco a poco (si giunge a Roma); (io darò in terra); (il lupo mangia il lupo).

Il culto di Dante, coltivato dagli accademici nel corso dei secoli, passa anche attraverso le paremie e la loro fortuna. La doppia trafila, dotta e popolare, riscontrabile in vari casi, attesta una volta di più il ricorso, da parte dell’Alighieri, a uno spettro linguistico ampio che tuttavia viene perfettamente inserito nel quadro di una poesia sempre armoniosa, regolata e di ascendenza classica.         

( a cura di Paolo Rondinelli, esperto linguista dell’Accademia della Crusca)

Riferimenti bibliografici:

  • C. Canneti, Dante, la Commedia e il Vocabolario della Crusca, “l’Informatore”, 4 maggio 2021.
  • D. De Martino – G. Stanchina (a cura di), Le pale dantesche degli antichi accademici della Crusca (secoli XVI-XVIII), Firenze, Accademia della Crusca, 2021.
  • P. Fiorelli, La raccolta di proverbi di Francesco Serdonati, in Proverbi, locuzioni, modi di dire nel dominio linguistico italiano, Atti del I Convegno di studi dell’Atlante Paremiologico Italiano (API), Modica, 26-28 ottobre 1995, a cura di S.C. Trovato, Roma, Il Calamo, 1999, pp. 219-230.
  • G. Frosini, Il volgare, in Dante fra il settecentocinquantenario della nascita (2015) e il settecentenario della morte (2021), II, a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, Roma, Salerno Editrice, 2016, pp. 505-533.
  • P. Manni, Da Dante a noi. Parole dantesche nel lessico italiano, in Etimologia e storia di parole, a cura di L. D’Onghia e L. Tomasin, Firenze, Cesati, 2018, pp. 417-432.
  • C. Marazzini, Il culto di Dante e gli accademici della Crusca dal Cinquecento al Novecento, in Dante, l’italiano, a cura di G. Frosini – G. Polimeni, Firenze, Accademia della Crusca – goWare, 2021, pp. 39-47.
  • A. Nocentini, Le Aggiunte e Osservazioni di Domenico M. Manni al Vocabolario Aretino di Francesco Redi, in «Lingua Nostra», LI 1 (1990), pp. 15-19.
  • M. Sessa, La Crusca e le crusche. Il Vocabolario e la lessicografia italiana del Sette-Ottocento, Firenze, Accademia della Crusca, 1991,  pp. 36-40.

Sitografia:

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