La vicenda di Cecilia Sala, arrestata e detenuta ingiustamente in condizioni disumane in Iran fra dicembre e gennaio, ha colpito profondamente gran parte dell’opinione pubblica italiana. A molti è sembrata la trama di un film, invece è la realtà del regime di quel Paese, la stessa che hanno raccontato alcuni registi e attori iraniani.
Molti di loro hanno pagato cara questa scelta. Come Zar Amir Ebrahimi, premiata a Cannes come miglior attrice, che nel 2006, vittima di revenge porn da parte dell’ex fidanzato, fu condannata a 100 colpi di frusta. Il giorno del processo fuggì dall’Iran per rifugiarsi a Parigi, dove vive tuttora. E dove abita anche Golshifteh Farahani, la prima attrice iraniana ad approdare a Hollywood dalla rivoluzione islamica del 1979. Per aver partecipato a una conferenza stampa senza velo nel 2008 le fu vietato di uscire dall’Iran, con la confisca del passaporto, ma lei riuscì ugualmente a lasciare il Paese.
Anche Mohammad Rasoulof, il regista de Il seme del fico sacro, uscito il 20 febbraio nelle sale italiane, Premio speciale della giuria a Cannes e nella cinquina degli Oscar 2025 per il miglior film internazionale, è una vittima del regime iraniano.
La trama
Nel suo film racconta di un uomo “buono”, gran lavoratore, affezionato alla famiglia, che viene nominato giudice istruttore dal tribunale rivoluzionario di Teheran, con l’approvazione della moglie, che spera in un po’ di benessere in più.
Il sogno “borghese” di una famiglia qualunque. Ma l’uomo è costretto dal sistema violento del regime degli Ayatollah al ruolo di carnefice. Sotto, nelle strade, le proteste scoppiate nel 2022. Quelle che sono seguite alla morte di Mahsa Amini, la studentessa uccisa dalle guardie rivoluzionarie per aver indossato in modo scorretto il velo.
Le ragazze gridano: «Donne, vita e libertà». Il sistema poliziesco le massacra di botte, le arresta, le tortura, e sommariamente le condanna anche a morte. E il protagonista, il giudice, cambia, diventa sempre più sospettoso e violento verso la sua stessa famiglia. Si irrigidisce come si è irrigidito sempre di più, in Iran, il regime.
Il film è molto interessante per capire come le dinamiche uomo-donna, genitori-figli, amici ed estranei, si sviluppino in un contesto sociale sotto controllo poliziesco, ma in cui hanno ormai fatto breccia cellulari, video dal vivo, social che fanno vedere la verità della violenza. È un film coraggioso, che riconosce alle donne – le vere protagoniste – la forza di opporsi.
L’ultima condanna
Quando, nel maggio scorso, è stato annunciato che il film era stato selezionato in concorso al festival di Cannes, Mohammad Rasoulof è stato condannato dalla Repubblica islamica a 8 anni di prigione, alla fustigazione, a una multa e alla confisca dei beni.
Era già stato arrestato altre volte. Nel 2010, accusato di aver girato un film senza permesso. Nel 2017 gli hanno confiscato il passaporto. Nel 2019 è stato condannato a un anno di prigione. Nel 2020 di nuovo a un anno di prigione, per i suoi film. E di nuovo nel 2022. Poi l’ultima condanna, nel 2024.
Ha passato il confine a piedi, di nascosto, di notte. Ha compiuto un estenuante, complicato e angosciante viaggio, vagando a piedi lungo il confine iraniano, per poi raggiungere la Turchia, senza documenti. Quando il suo film è stato proiettato al festival di Cannes, è riuscito ad arrivare in tempo per presentarsi sul red carpet, stringendo fra le mani le fotografie dei due interpreti protagonisti, Missagh Zareh e Soheila Golestani, che non hanno potuto lasciare l’Iran.
Ha raccontato che il film è stato girato interamente in segreto: «È stato tutto molto difficile, ma dopo il movimento “Donne, vita, libertà” molti professionisti del cinema avevano deciso di non lavorare in progetti complici con il regime. Molte attrici, per esempio, hanno deciso di non recitare più in film nei quali devono obbligatoriamente indossare il velo. Fra questi “ribelli”, abbiamo scelto il nostro cast».