Imparare dai pulcini

Gli studi sul cervello di varie specie per aiutare gli umani

Occhi puntati sulle galline e sui pulcini: Suzana Herculano-Houzel della Vanderbilt University, in Tennessee, ha verificato che, a parità di massa, hanno più neuroni dei primati, mentre Giorgio Vallortigara, professore di Neuroscienze presso il Centre for Mind-Brain Sciences dell’Università di Trento, di cui è stato direttore, da molti anni studia il cervello di varie specie animali, in particolare dei pulcini, spingendosi a interrogarsi su questioni più filosofiche, come l’origine della coscienza. Nel suo libro più recente, Il pulcino di Kant (Adelphi), indaga, con un pizzico di creatività, i meccanismi neurali della mente animale.

Ma perché studiare proprio i pulcini?

«Perché appena nati sanno già “comportarsi”. Appartengono alle specie a sviluppo precoce che, a differenza della nostra, i cui piccoli nascono pressoché inetti, sono in grado subito dopo la schiusa di condurre test anche sofisticati di percezione, di memoria, di presa di decisioni e di risoluzione di problemi». A differenza dei neonati umani, che «a parte guardare (ogni tanto), succhiare e dormire (molto), non fanno altro. Inoltre, non abbiamo la possibilità di controllare con precisione le loro esperienze precedenti (cosa hanno veduto, udito o toccato) mentre con i pulcini in laboratorio possiamo controllare tutto, incluse le esperienze dentro l’uovo».

Contano e riconoscono i suoni

Si scopre così che i pulcini sono capaci, per esempio, di distinguere gli stimoli numerici, scegliendo “di più” o “di meno”, e di fare le operazioni dell’aritmetica, sommare, sottrarre o dividere. «Sanno anche orientarsi nello spazio mostrando i rudimenti di una rappresentazione geometrica (euclidea) dell’ambiente.

Se opportunamente “interrogati”, possono risolvere problemi logici, come quelli dell’inferenza transitiva (se Aldo è più grande di Bruno, e se Bruno è più grande di Carlo, chi è più piccolo? Aldo o Bruno?). E sanno discriminare suoni consonanti e dissonanti, preferendo i primi. A dire il vero non c’è nulla di incredibile in tutto ciò: sono cose che sanno fare tutti i vertebrati (pesci, anfibi, rettili, mammiferi e uccelli).

Quello che di straordinario ci rivelano gli studi sui pulcini è quanto queste capacità cognitive siano già predisposte nei cervelli, siano già lì allo “stato nascente” per così dire. Più tecnicamente, sono state fissate nel patrimonio genetico lungo il corso della storia evolutiva».

Una ricerca sensata

«È importante che le persone capiscano il senso di ciò che facciamo, perché ovviamente queste ricerche possono apparire assai bislacche a chi fa altri mestieri – spiega il professore -. Le faccio due esempi. Ci siamo occupati a lungo del modo in cui creature come i pulcini, o i neonati, possano riconoscere ciò che è vivente da ciò che non lo è, perché questo è alla base della costruzione di un cervello sociale. I pulcini appena nati sono attratti spontaneamente da tutta una serie di sottili indizi di “animatezza”, come una faccia schematica (due macchie in alto a mo’ di occhi e una in basso a mo’ di becco o, in altre specie, di bocca). Lo stesso abbiamo documentato anche nei neonati umani. Poi ci siamo domandati se i bambini a rischio di autismo (fratelli o sorelle di individui a cui è già stata diagnosticata la malattia) mostrassero dei disturbi in questi “rivelatori di animatezza”. Per capirlo li abbiamo studiati usando gli stessi test di comportamento che avevamo messo a punto nei pulcini. I risultati sono stati incoraggianti: questo metodo può essere utile per fare una diagnosi precoce».

Gli studi sulle capacità numeriche e aritmetiche, non solo nel pulcino ma anche nel pesce zebra e sui neonati umani, ci possono aiutare a comprendere problematiche come la discalculia, che rende difficile ai bambini e anche agli adulti districarsi con numeri e quantità. Un aiuto può arrivare anche dai pulcini.

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