Durante la passeggiata lungo l’argine del fiume le era parso di averla vicina. Era una presenza vitale, come un’energia che la sosteneva, le dava un impulso a proseguire nel cammino ma, allo stesso tempo, come un’ancora, la teneva ben salda a terra. A volte le era capitato di essere in procinto di scivolare o inciampare, di perdere l’equilibrio per un attimo, ma di essere sempre riuscita a riprendersi miracolosamente, evitando cadute pericolose alla sua età. Quel giorno, allo stesso modo, sentiva di essere al sicuro, protetta e incoraggiata.
Arrivò davanti al cancello di casa e lo vide: era un braccialettino, fatto di perline di plastica, una rosa e una bianca, una rosa e una bianca, fino a chiudere il cerchio, ma un cerchio piccolo, giusto per il polso di una bambina. Al centro, una serie di cinque perline più grandi delle altre aveva un lettera disegnata, a formare un nome. Lo raccolse dal marciapiede e lo strofinò con la manica del maglione, dopo averci alitato sopra, per togliere la polvere dell’asfalto – pensò – ma si sarebbe detto che stesse solo stropicciando i suoi occhi increduli. “Tecla”.
Aveva letto di miracoli quotidiani in diversi libri motivazionali, il suo genere letterario preferito, e ci credeva davvero in questi straordinari eventi del quotidiano o, almeno, pensava che certe cose, all’apparenza soprannaturali, potessero verificarsi nella vita di tutti in giorni. Ma questo – si disse – era troppo. Era troppo bello per essere vero.
La strada che portava a casa sua era frequentata anche da nonni con i nipotini, perché le scuole elementari erano a poche centinaia di metri. Era sicuramente la spiegazione più logica e razionale: i bambini perdono tutto, scarpine, giocattoli, il succio e … i braccialetti. Però che strano nome per una bambina! – Pensò. Ma non era tanto la rarità del nome a turbarla, quanto quel nome stesso, che lei conosceva bene fin da piccola.
La mamma le aveva raccontato di sua nonna, una donna molto religiosa , originaria di Este, una cittadina in provincia di Padova. Quando la mamma nacque la nonna voleva darle il nome di Tecla, la santa patrona d’ Este, ma i genitori, che erano entrambi toscani, nati in un paesino in provincia di Arezzo, si opposero a questa scelta e decisero, senza troppa fantasia, di darle un nome dolce e rassicurante: Maria. Dopo alcuni giorni di discussione, i due giovani genitori acconsentirono a chiamarla Maria Este, ben sapendo che tutti l’avrebbero chiamata sempre e solo Maria e così fu. Non che alla mamma dispiacesse quel bel nome, si rammaricava solo di aver avuto un solo nome e che la nonna fosse stata prima imbrogliata e poi tradita. Come tutti i bambini aveva una vera e propria venerazione per la nonna e la sua infanzia era stata arricchita e resa felice dalla sua presenza in casa.
Entrò in casa con il braccialetto, ansimante, quasi avesse corso durante il tragitto e tanti pensieri cominciarono ad affollarle la mente. Chi era la bambina che portava quel nome? Chi erano in suoi nonni? Quanti anni aveva? Come avevano fatto a trovare un braccialettino con quel nome? Il braccialetto era intatto, non si era strappato dal polso ma era stretto, l’elastico poco estensibile, si sarebbe detto che la bambina avesse sei, al massimo sette anni. Com’era? La immaginò bionda, come la piccola Paola, alla quale dava lezioni d’inglese ogni martedì. Magari aveva anche gli occhi verdi come lei e una voce squillante capace di scuoterti dall’apatia e farti sciogliere il cuore. Il giorno dopo decise di fare delle indagini: avrebbe chiesto ai suoi vicini di casa e ai conoscenti che frequentavano la zona il nome dei loro nipoti. Fin dalle prime ricerche vennero fuori nomi nuovi, non tradizionali e piuttosto originali. Le piacquero Ariel e Ginevra, Jessica e Mia, Chloe e Penelope. Ma a nessuna bambina era stato dato il nome Tecla.
Si rivelò un’inutile ricerca: era come voler trovare una spiegazione logica all’irrazionale, era come voler conciliare ragione e fede, che vanno poco d’accordo. Era come negare l’evidenza dell’imperscrutabile, insondabile mistero della vita. No, era peggio: era come non voler accettare il fatto che la mamma, finalmente, si era decisa a comunicarle la sua presenza, la sua vicinanza spirituale e fisica allo stesso tempo.
Quante volte aveva desiderato le prove della sua vita ultraterrena e della possibilità di parlarle e ricevere risposte! In cinque anni, considerati i giorni, più di mille e cinquecento volte. Non che la mancanza di segnali l’avesse scoraggiata, anzi. Non aveva bisogno, in fondo, di prove concrete: sua madre non poteva non esserle accanto perché il loro legame era troppo forte. Poi c’erano stati gli audiolibri da ascoltare durante le sue lunghe camminate e tutti parlavano della stessa cosa, di medium che rispondono ai dubbi e alle paure che ci poniamo sulla vita oltre la morte e dei modi in cui i nostri cari comunicano ancora con noi. Quanti episodi toccanti, emozionanti e talvolta perfino divertenti aveva ascoltato! Finalmente anche lei era riuscita a stabilire un contatto: niente luci che si accendono o si spengono inspiegabilmente, niente piume di uccello o monetine, né combinazioni di numeri, né leggere pressioni sulla spalla o carezze invisibili. Niente di tutto ciò, solo un braccialetto. Una storia da raccontare – pensò.
I miracoli non esistono ma esistono persone che credono ai miracoli perché vogliono crederci, e non sono ingenue e credulone, solo che non si arrendono alle fredde deduzioni e alla logica stringente: lei era una di quelle. E non aveva scelto la via più facile, solo quella più vera.
(a cura di Pyera)