Mi dispiace, è una lesione…No, non indica che qualcosa si è rotto, ma che si è moltiplicato, ha proliferato follemente senza osservare più l’ordine della creazione. È terribile che un eccesso di creazione porti con sé la morte
Buio. E ancora buio.
Paura.
Una paura abissale, una paura di vertigine.
Mai si è sentito il proprio corpo come tale, un corpo. Chi ha mai pensato ai propri seni? Alla ghiandola surrenale? Al fegato? Ai testicoli? Ai polmoni? [Forse ai polmoni si pensa, perché non si respira più.]
Un corpo, il nostro, il mio, su cui sembra d’un tratto che non si possa più niente.
Un corpo sconosciuto, fino ad ora soltanto vissuto, usato. Un corpo di cui si sente improvvisamente la solitudine fisica, di ogni cellula che lo compone, una solitudine d’interno.
Eppure, in questo momento cruciale, da questo corpo singolo, disorientato, impaurito, dal proprio corpo così disperatamente solo, si esce fuori e si entra in un corpo collettivo. Collettivo perché la sua cura, la sua salute, spesso la sua salvezza, sono nelle mani di altri. Che non sono soltanto i medici che ci curano, i chirurghi che ci operano, gli infermieri che ci somministrano la chemio, che amorosamente puliscono Port e pic. Sono le psicologhe che ci portano in barca, che ci curano le anime – loro, piccole, le nostre anime, hanno bisogno di supporto, perché mentre i corpi sono feriti, loro sono ammutolite –, le fisiatre che correggono la postura (“si metta, mi raccomando, i seni, sennò mi si incurva” – “mi si”, bellissima appartenenza della mia schiena e del petto senza più petto al corpo collettivo), le chinesiologhe che riassestano l’ossatura, fortificano la muscolatura, le terapeute estetiche che curano l’aspetto, e fanno recuperare la bellezza di sé, del sentirsi ancora a casa nel proprio corpo.
“Si concentri sul presente. Sulla forza interiore che non vede ma da cui sta già attingendo.”
Cambia il tempo quando ci si ammala, cambia la percezione e la realtà del tempo della vita. Quel presente dimentico, affannato, diventa il fulcro del nostro stare a terra, la calamita che attira a sé la forza per tornare a desiderare, a progettare, a produrre vita, dono di ogni essere vivente.
Il presente, che per tutti è fatto di passato e futuro, un intreccio di memoria e di immaginazione che desidera, diventa povero di passato nella malattia, e privo di futuro. È un tempo il cui tessuto è bucato. E dai fori passa di tutto. Ansia, paura, commozione, dolore. Speranza, mi dicono al Ce-Ri.On, bellezza come godimento di sé, come piacere, mi insegnano alla LiLt.
Il tempo diventa un frutto spaccato da cui si sente il profumo della vita.
Qualcosa si infrange, oh sì, si infrange. Io sento come se avessi una ferita nel costato e da lì entrasse un vento. Ormai è così, un vento che mi accompagnerà da qui in avanti.
Eppure, insieme al mio tempo si è bucata anche la mia solitudine, la solitudine del mio corpo malato. Perché la sola natura che ho capito di questo tempo leso, violato, è il suo carattere comune. Non sono sola, siamo in tanti. Con quante donne, uomini, giovani ho condiviso le ore di chemioterapia. Quanti volti ho osservato nelle sale di aspetto di oncologia. Quanti amici mi dicono: anche io.
Tutte queste mani si intrecciano, tutte queste voci…la malattia è tornata…non so quanto potrò vivere…sì, è operabile…no, non è operabile…i took my treatment…come stai oggi?…la chiamano fatigue, l’abbiamo presa in prestito dai francesi…è diversa dalla fatica….si è spento dopo lunga e inesorabile malattia…preso da un male incurabile…guardi non morirà di questo, non si preoccupi…eppure…eppure…sono stanca, mi si stanno aprendo ferite continue nelle gambe…mi fanno letteralmente bagni di morfina…
Nell’esperienza della malattia sembra che la morte arrivi da dentro invece che da fuori. Che si invecchi precocemente, con la fatigue che ci rallenta e toglie il fiato. Che non si sia più padroni del nostro corpo – ma lo siamo mai? Siamo disorientate, disorientati, confusi, rese, improvvisamente, umili.
L’umiltà – una forza più grande di noi ci travolge, e il corpo, il mio corpo, diventato d’un tratto collettivo, messo nelle mani di altri. Sono queste le sensazioni che mi accompagnano da due anni.
E in questo stordimento, disorientamento, in questa paura profonda, che mi fa vacillare, come la grande Onda della rossa (per chi non l’ha provata, è una sostanza della chemio che fa fare la pipi’ rossa), quando mi è stato sussurrato: vai a Villa delle rose, vai al Ce.Ri.On così ho fatto. Mi sono aggrappata a loro come un naufrago in mezzo alla tempesta. E con loro cammino, scrivo, mi trucco, vado in barca, faccio teatro. Tesso un tempo diverso, ricamo i fori.
Imparo l’umiltà, di fronte a questa immensa vita che troppo spesso non viviamo, e la comunità, con tutte le mie sorelle e fratelli di lesione, grande, piccola, multiple, singola.
Il nostro presente così frastornato, e tessuto con coloro che amiamo, sono la forza interiore e il nostro futuro: tutte quelle mani che si tendono come reti di salvataggio per noi funamboli di salute e salvezza
Corriamo insieme, per chi non può più farlo
(di Margherita Pascucci, Ce.Ri.On/LiLt per “Corri la vita 2024”)