Cavallette a colazione? No, grazie. È la risposta che darebbero molti fra noi occidentali, ma da qualche parte nel mondo quelli a base di insetti sono piatti apprezzati che fanno parte della cultura culinaria.
Com’è possibile che cibi per noi repellenti, altrove siano considerati una prelibatezza? Lo spiega molto bene Gaia Cottino, antropologa dell’Università di Genova nel suo libro Cavallette a colazione (DeAgostini): «Gusti e disgusti si formano nel tempo, in famiglia e nella società, attraverso i decenni e addirittura i secoli come dimostrano quei tanti alimenti un tempo nuovi che poi sono divenuti elementi essenziali della tipica cucina italiana».
Il riferimento è a pomodoro, patate, mais che, arrivati nel XVI secolo dalle Americhe, sono entrati nella nostra dieta dopo oltre un centinaio di anni di diffidenza, generalmente sostituendo un ingrediente in una ricetta già diffusa: ad esempio le patate inserite negli gnocchi al posto del pan grattato o il mais divenuto l’ingrediente principale della polenta al posto di altre farine. Si è formato così, esperimento dopo esperimento, generazione dopo generazione, quello che la studiosa chiama «ordine culinario», che ci guida oggi nelle scelte quotidiane.
Paura del nuovo
Quando parliamo di cibo, si entra anche in una dimensione simbolica che ci coinvolge profondamente, per questo è naturale essere diffidenti. Di conseguenza le abitudini alimentari sono le più dure a cambiare.
Senza arrivare a mangiare cavallette&Co, secondo la studiosa alcuni nuovi cibi sostenibili per l’ecologia del pianeta potrebbero a breve entrare in maniera stabile nella nostra dieta: si tratta di alimenti già consumati in altre parti del mondo e che per la loro abbondanza in natura sarebbero una risposta allo sfruttamento indiscriminato delle risorse. Gaia Cottino ne individua, fra gli altri, tre che abbondano nell’area del Mediterraneo e non sono così lontani da cibi che già consumiamo.
Fra questi novel food – come vengono definiti dall’Unione Europea che attraverso l’agenzia Efsa ne stabilisce la salubrità e ne ammette la commercializzazione e il consumo -, ci sono le alghe, che la moda della cucina giapponese ha già fatto incontrare con i nostri palati e che, avendo una consistenza simile ad alcune verdure presenti nella nostra dieta, non generano il disgusto che invece potrebbe suscitare un piatto di insetti.
In Giappone la tradizione di cercare fonti proteiche in mare è legata anche al fatto che per 1200 anni, complice la religione buddista, non si poteva consumare carne di mucca. Attingere a scopo alimentare alghe dal Mediterraneo potrebbe ridurre l’impronta ecologica del nostro paniere alimentare. «Al momento non esistono in Europa coltivazioni di alghe, se non nel nord della Spagna – spiega Cottino -, ma potrebbero presto diffondersi se il consumo si espandesse».
Cactus e meduse
Altro alimento che potrebbe entrare facilmente nella nostra dieta con un vantaggio ecologico per il pianeta sono le pale di cactus, che in alcuni ristoranti siciliani vengono già proposte nella parmigiana al posto delle melanzane, pare con gradimento da parte dei clienti, fra questi la stessa Cottino. Maggiore diffidenza suscita invece la zuppa di pesce con le meduse, che abbondano nei nostri mari e che, private della parte urticante, sono già un ingrediente apprezzato nel Sud-est asiatico e in Oceania. Sembra che, una volta trattate e cotte, abbiano la consistenza di un calamaro.
Ma al di là dei gusti, il rifiuto dei cibi nuovi è spesso legato al rischio di perdita dell’identità: «Mangiare cibi del futuro induce a pensare che venga minacciata l’identità di una popolazione, quella toscana ad esempio. Ma, guardando indietro nella storia, vediamo che non esiste un’autoctonia e che anche la cucina toscana è stratificata e meticcia. Questa paura – conclude l’antropologa – è radicata nel profondo ed è correlata alla paura del nuovo e del diverso».