In merito alle proteste degli agricoltori che agli inizi di febbraio hanno invaso piazze e strade in molti Paesi europei, Italia inclusa, comprendo il loro disagio, perché – sia pur a livello familiare – sono anche io un coltivatore, ma non giustifico la loro opposizione verso la transizione ecologica.
Produrre cibo dalla terra è un mestiere faticoso e irto di rischi. Piante e animali sono esseri viventi e non pezzi di metallo che escono da una catena di montaggio. Sono esposti alle intemperie, e ai sempre più frequenti estremi climatici, li devi accudire continuamente, feste comandate incluse. È dunque sacrosanto pretendere che il cibo sia pagato il giusto a chi lo produce con tanto sacrificio, accettando – come consumatori finali – che impegno professionale e qualità organolettica siano correttamente remunerati.
Non per questo però ci si deve opporre alle nuove normative comunitarie che mirano a ridurre le emissioni di gas serra, l’eccessivo uso di fitofarmaci tossici e il riposo dei suoli. Sarebbe veramente darsi la zappa sui piedi!
La riduzione delle emissioni di gas serra – a cui l’agricoltura mondiale contribuisce per circa il 30% – è fondamentale per contenere il riscaldamento globale, di cui l’agricoltura è proprio una delle vittime più esposte: già oggi ci rendiamo conto di quanti danni hanno provocato siccità, alluvioni e grandinate alla nostra produzione agricola. Se il clima continuasse a peggiorare l’intero comparto agroalimentare subirebbe conseguenze inaudite, quindi il contenimento delle emissioni è come un’assicurazione sul futuro.
Giustamente se aumenta il prezzo del gasolio, se bisogna rinnovare il parco macchine con attrezzature più efficienti, se bisogna ricorrere alle energie rinnovabili, questi costi devono essere condivisi con altri settori della società attraverso un aumento del prezzo di vendita finale. Tutti mangiamo, quindi siamo tutti partecipi della sfida climatica. Quanto alla riduzione dei fitofarmaci è una questione di rispetto per la salute, a cominciare dagli stessi agricoltori – i più esposti alle molecole che distribuiscono sulle colture – fino a chi se ne ritrova i residui nel piatto.
Uno studio di Carsten A. Brühl e colleghi, uscito sulla rivista “Nature”, relativo alla migrazione dei fitofarmaci nell’aria dai meleti della Val Venosta, ne ha rilevato tracce perfino sui ghiacciai circostanti. Serve ovviamente più ricerca scientifica per individuare composti meno tossici e lavorare su selezione di varietà resistenti alle malattie e lotta biologica agli insetti dannosi. Quanto alla difesa della biodiversità, l’agricoltura industriale è una delle principali cause di estinzione della vita selvatica. La legge sul ripristino della natura è fortunatamente passata in Parlamento europeo a fine febbraio e speriamo porti a una maggiore diffusione delle pratiche agroecologiche, che mirano a una convivenza tra insetti, piante e animali utili all’ecosistema.
Un esempio è la reintroduzione di siepi e filari di alberi a bordo campo, estirpati negli anni passati per mettere a profitto ogni metro quadro di terreno (salvo poi cementificare enormi aree di suoli fertili). La transizione ecologica in agricoltura è irrinunciabile, non può esistere cibo sano in un ambiente malato.