8 marzo 1944 – 6 maggio 1945. Alberto Ducci, 422 giorni di Lager
8 marzo 1944. Alberto Ducci, operaio, 16 anni, viene arrestato a Firenze in piazza Dalmazia dalla Guardia nazionale repubblicana, dopo gli scioperi del 4 marzo, e detenuto nelle scuole Leopoldine di Firenze. Insieme ad oltre altre 300 persone viene deportato a Mauthausen dove arriva la mattina dell’11 marzo 1944 e immatricolato con il numero 57101 come “Schutzhaftlinge”, deportato per motivi di sicurezza.
Il 25 marzo 1944 viene trasferito ad Ebensee, dove lavora all’ampliamento del campo, e poi nelle gallerie. Liberato il 6 maggio 1945 dalle truppe americane, a 17 anni, dopo 422 giorni nel campo di sterminio, pesa 27 kg, ma è vivo. Molti dei suoi compagni non ce l’hanno fatta.
Di padre in figlio
Oggi che Alberto non c’è più, è suo figlio Alessio (nella foto) a portare avanti la memoria, raccontando la sua testimonianza alle centinaia di studenti che ogni anno incontra nelle scuole toscane o accompagna a maggio nei viaggi nei campi di ex sterminio nazista di Mauthausen ed Ebensee. Alessio è anche il presidente di Aned Firenze, Associazione nazionale ex deportati.
Come è venuto a conoscenza della storia di deportazione di suo padre?
“Il tema della deportazione è sempre stato presente nella nostra famiglia. Si respirava nella quotidianità, a partire dall’educazione a non sprecare il cibo. Mio padre non mi ha mai raccontato i dettagli della vita al campo, la storia delle cicatrici che aveva addosso, una in particolare nella gamba… Era forse una sua forma di pudore, un modo per preservare la famiglia dalla sofferenza. Mi diceva mi ha dato un calcio un tedesco… poi dopo ho saputo che gli avevano spaccato una tibia. Ma ci siamo parlati e raccontati anche nel silenzio, magari mi dava un libro e mi diceva “poi se ne parla”.
La sua storia l’ho conosciuta leggendo i documenti, o dal racconto di altri, da Massimo Settimelli, ad esempio, che ha scritto il libro “Era ancora un ragazzo” ispirato alla sua storia. Massimo era uno studente di Bagno a Ripoli, che fece con lui il primo viaggio della memoria, e che è rimasto in contatto con lui. Mio padre è morto che avevo 26 anni”.
Come è stato per suo padre tornare alla “normalità” una volta ritornato a casa?
“Reinserirsi nella vita di tutti i giorni è stata dura. Quando è tornato faceva quasi fatica a riconoscerlo anche sua madre, era dimagrito, ma era cambiato anche nel modo di essere, lo aveva lasciato ragazzino ed era dovuto diventare in fretta un uomo. Lui aveva voglia di raccontare quello che gli era successo, ma la gente dopo tanti anni di guerra e sofferenza non aveva molta voglia di stare ad ascoltare. E poi c’era chi non credeva che fosse successo”.
Cosa ha provato a scuola, quando si è trovato ad affrontare e studiare la storia che suo padre aveva vissuto direttamente?
“Mio padre è venuto a scuola da me quando facevo le medie per portare la sua testimonianza. Sentiva l’obbligo di farlo, anche per un senso del dovere verso i suoi compagni che non erano tornati, da qui anche la sua iscrizione e il suo impegno nell’Aned. Non gli ho mai sentito pronunciare una parola di odio o di vendetta, anche se nei pellegrinaggi ai campi di sterminio mi capitava di sentirlo parlare con i compagni di deportazione e leggere nei loro occhi il terrore per quei luoghi, per quello che avevano vissuto”.
La prima volta che è andato in visita al campo di sterminio di Ebensee?
“Ero con mio padre, facevo le medie. Con noi c’era anche mia madre. Lui camminava avanti a noi, io e mia madre restammo indietro”.
Cosa vuole dire per lei oggi andare in una scuola e raccontare di Alberto?
“Non sono molti quelli che come mio padre hanno avuto la fortuna di sopravvivere e tornare, e anche tra questi non tutti hanno voluto raccontare la loro storia. Una volta morto mio padre, raccogliere la sua testimonianza è stata una scelta obbligata, perché morti i testimoni diretti se l’Aned voleva continuare a portare avanti le proprie attività, dovevamo farlo noi familiari, figli e nipoti, e così abbiamo fatto. C’è ancora bisogno di un forte impegno da parte nostra per fare conoscere la storia della Deportazione, che ha coinvolto gli ebrei ma anche politici, omosessuali, rom…quei triangoli di diverso colore che mettevano sulle giacche ai deportati nei campi per identificare le varie categorie sono ancora presenti nella nostra società, la discriminazione è ancora presente”.
Qual è la testimonianza più importante che le ha lasciato?
“Un messaggio di pace e di fratellanza. Essere cittadini del mondo, conoscere le persone e le loro storie, perché i confini, i muri, sono prima di tutto nella nostra testa. Nei nostri viaggi a Mauthausen, l’ultimo giorno ci sono più di 50 delegazioni dal mondo, un momento importante all’insegna della solidarietà, della fratellanza e della vicinanza dei popoli”.
Cosa vuol dire ai giovani di oggi?
“Il nostro impegno, soprattutto quando parliamo ai giovani studenti, è quello di raccontare loro la storia di ieri riportandola all’oggi, per creare un nuovo tessuto di integrazione. Ai giovani dico sempre di avere il coraggio di fare le proprie scelte, anche se difficili e scomode, che devono avere rispetto per le diversità, e che non devono perdere mai la speranza, nonostante le difficoltà che la vita porrà loro davanti, perché mio padre ne è l’esempio”.
C’è nei ragazzi la volontà di essere nuovi testimoni della Memoria?
“Sì, c’è. Nel consiglio dell’Aned ci sono due giovani, uno del 1998 e uno del 1995, ragazzi che sono venuti in viaggio con noi da studenti e una volta tornati hanno deciso di entrare a far parte dell’associazione. Con il venir meno degli ultimi testimoni diretti diventa sempre più importante avere luoghi ed occasioni per portare avanti questo impegno, che non è semplice perché il contesto in cui viviamo è complesso”.
Lei è padre. Come ha raccontato ai suoi figli la storia del nonno?
“Ho accompagnato i miei figli in visita ai campi di ex sterminio nazista quando erano in terza media, insieme ai loro compagni di scuola. Quel giorno mi sono immedesimato in mio padre, nella sua riservatezza nel raccontarsi”.
Il foulard che indossa nelle cerimonie ufficiali e durante gli incontri, simbolo della Deportazione, cosa rappresenta per lei?
“Mi è stato tramandato da mio padre, non è originale, ma è della stessa stoffa di flanella. Quando lo indosso sento di non essere solo nel portare avanti il mio compito”.
Cosa rappresenta il restauro del Memoriale per le generazioni di oggi e per quelle future?
“Non è possibile portare tutti gli studenti a visitare gli ex campi di sterminio nazista, possiamo però portare una piccola parte di quei luoghi nella nostra città, e farne occasione di studio e di documentazione. Così è già per il museo della deportazione di Prato, così sarà per l’Ex 3 nel quartiere fiorentino di Gavinana, che diventerà il luogo della Memoria, dove i giovani potranno approfondire le loro conoscenze, e che a breve ospiterà anche il Memoriale italiano di Auschwitz, simbolo della deportazione degli italiani al campo di concentramento”.
Unicoop Firenze ha lanciato la campagna di raccolta fondi “Conserva la Memoria” per sostenere Aned Firenze, con Cgil, Arci, Anpi, la Comunità ebraica, e raggiungere la cifra necessaria per ultimare i lavori di restauro del Memorale italiano di Auschwitz che sarà ospitato all’Ex 3 di piazza Bartali, a Firenze. La raccolta fondi prosegue fino al 27 marzo 2019