Tre giorni di viaggio
La strada è lunga e a volte si deve rallentare. Lo stop per ottenere i visti, ad esempio, non era in programma e ha reso ancora più lontana la meta. La meta è Aleppo, dove la guerra dura ormai da otto anni e i bambini si dividono fra quelli che hanno conosciuto solo il conflitto, le bombe, le mine, il silenzio alternato agli scoppi, le macerie sulla strada e la polvere addosso, e quelli che all’inizio del conflitto erano già abbastanza grandicelli da sapere cosa vuole dire guerra e cosa vuol dire pace. Oppure fra chi porta nell’anima le ferite che bruciano di più e chi invece è costretto a una disabilità fisica dovuta alla guerra, ha perso un arto o la capacità di muoversi autonomamente.
Non è stato un facile quello di Valentina, Matteo e Silvia, i professionisti del Meyer del progetto “Una speranza per i bambini di Aleppo”, realizzato con il contributo della Fondazione Il Cuore si scioglie e in collaborazione con Arci e Fondazione Giovanni Paolo II. Hanno portato in Siria, oltre alle competenze di un’eccellenza internazionale come l’ospedale pediatrico fiorentino, oggetti di uso comune che però ad Aleppo scarseggiano.
Matteo e Silvia sono fisioterapisti e insieme a Valentina, psicologa e psicoterapeuta, sono già stati in Siria a gennaio scorso. Il primo impatto con la realtà di Aleppo è stato forte, ma utilissimo per valutare le esigenze più impellenti di quella parte di mondo. E, sebbene fosse solo una missione preparatoria, ha rappresentato l’occasione per portare ai cittadini di Aleppo una speranza, quella di non essere dimenticati dal mondo occidentale. Già due anni fa, la Fondazione Il Cuore si scioglie aveva risposto all’appello dell’Unicef per salvare oltre 4000 bambini intrappolati ad Aleppo Est, molti dei quali orfani e senza famiglia.
In questa prima fase la Fondazione contribuì con una raccolta fondi per garantire ai piccoli cibo, cure mediche e ogni tipo di assistenza. In seguito si è unito il Meyer, che, da tempo, con il progetto “Bambini nel mondo”, sostenuto dalla Fondazione Meyer, lavora perché l’impegno dell’ospedale pediatrico diventi sempre più “globale”, con la creazione di una task force umanitaria.
Una valigia piena di amore
Valentina, Matteo e Silvia in valigia hanno messo qualche giocattolo, funzionale per sollecitare la relazione con i più piccoli, oltre ad attrezzature di base come passeggini, sdraiette e seggioloni. Hanno portato anche presidi medici, ausili e protesi necessari per le cure di riabilitazione dei bambini rimasti feriti dalle mine o dal crollo degli edifici, quelli che a gennaio avevano valutato come più necessari. Oltre alla pratica – perché fare riabilitazione in una stanza piccola, fredda e con i muri scrostati è diverso da farla in un ambulatorio come i nostri – c’è la teoria e una parte importante dell’impegno del progetto riguarda la formazione.
La guerra ha isolato gli operatori sanitari siriani, le cui competenze sono rimaste indietro di anni, mentre il mondo della medicina andava avanti. Per questo ad Aleppo i fisioterapisti del Meyer, oltre a confrontarsi direttamente con i bambini, hanno fatto attività di aggiornamento e di supporto per i loro colleghi.
La formazione è il perno centrale anche dell’intervento in ambito psicologico. Per tutta la settimana, gli operatori locali sono stati coinvolti in un percorso che aveva due obiettivi: da una parte Valentina ha illustrato strumenti per la relazione di aiuto a bambini e adolescenti e alle loro famiglie, dall’altra si è confrontata direttamente con gli psicoterapeuti di Aleppo per sostenerli nell’elaborazione delle esperienze traumatiche vissute sulla loro pelle.
In soccorso dei più fragili
Il disagio psicologico più frequente colpisce i bambini rimasti disabili a causa della guerra, che si trovano a fronteggiare questo nuovo stato in un ambiente che non è pronto ad accogliere la disabilità. Altri hanno perso un familiare o sono rimasti orfani per colpa delle bombe. Ma la solitudine non riguarda solo i bambini, racconta Valentina, è diffusa anche fra le donne, che si trovano sole ed isolate. Proprio da loro può ripartire la comunità e la presenza dei professionisti del Meyer ad Aleppo le ha aiutate a riprendere le relazioni e a non abbandonare la speranza.
Isolamento, infatti, è la parola più ricorrente nei racconti di Valentina, Matteo e Silvia ed è la sensazione che accompagna bambini ed adulti da anni alle prese con la guerra. Per questo il progetto per i bambini di Aleppo mira a curarli nel senso più ampio del termine.
«Per noi l’ospedale è il luogo che mette al centro la persona e i suoi diritti, a maggior ragione se la persona è malata ed ancora di più se si tratta di un bambino o di un adolescente – spiega Gianpaolo Donzelli, presidente Fondazione Meyer -. In Siria la guerra dura da otto anni e al conflitto si è aggiunto l’embargo, quindi la mancanza di farmaci, come quelli salvavita, di presidi che possono sostenere l’amputazione di un arto e di sussidi terapeutici per i disturbi mentali. Possiamo dire che per chi vive in Siria oggi ci sono due guerre da combattere.
La Fondazione Meyer al fianco della Fondazione Il Cuore si scioglie c’è, con tutto l’impegno che possiamo mettere in campo per sostenere i bambini di Aleppo e di riflesso tutta la comunità. Ma queste missioni sono importanti anche per l’ospedale fiorentino: quando i nostri colleghi tornano dalla Siria e raccontano di quanto hanno fatto per i piccoli colpiti dalla guerra, ci stimolano ancora di più a ricordarci cosa vuole dire la nostra professione e quale è la vera missione di un medico».