Liliana Segre arriva nelle scuole della Toscana, non in persona ma con le sue toccanti parole pronunciate in occasione dell’ultima testimonianza pubblica resa a ottobre a Rondine, minuscolo borgo in provincia di Arezzo, dove ha sede la Cittadella della Pace. Vi giunge anche grazie a Unicoop Firenze che si impegna a distribuire agli istituti scolastici un video di quell’intervento.
Iniziativa che fa seguito al lavoro svolto negli anni con i percorsi educativi sul tema della memoria, intesa come ciò che permette alla comunità di costruire gli strumenti per rimanere liberi, ma anche come chiave per leggere il mondo contemporaneo e materia prima dei valori collettivi e dell’identità sociale di tutti. Insomma, è la continuazione naturale di un percorso per aiutare le ragazze e i ragazzi a conoscere quello che è stato, perché non riaccada in futuro.
E dato che quest’anno, causa pandemia, non si potrà svolgere il viaggio della memoria che porta i ragazzi toscani a toccare con mano le memorie delle atrocità naziste nei campi di sterminio, in coincidenza con il giorno del ricordo della Shoah, questa testimonianza potrà servire a non dimenticare.
Ecco alcuni estratti del racconto di Liliana Segre, allora bambina e poi ragazzina, costretta a crescere troppo in fretta dalla malvagità umana.
L’espulsione dalla scuola
Avevo la mia vita, la mia piccola vita, quella piccola vita interrotta, che in un giorno di settembre del 1938 mi ha fatto diventare l’altra. Lo sono diventata il giorno in cui, a 8 anni, non sono potuta più andare a scuola. Ci sono quei momenti nella vita in cui ti puoi ricordare un colore, una situazione. Io ero a tavola con mio papà, i miei nonni e mi dissero: «Tu non puoi più andare a scuola quest’anno».
Dovevo fare la terza elementare ed ero una alunna qualunque, una ragazzina discreta, non particolarmente brava, ma mi piaceva molto andare a scuola, ero figlia unica senza la mamma, non avevo fratellini, cuginetti con cui giocare, quindi andavo a scuola molto volentieri. Così chiesi: «Perché non posso più andare a scuola?». «Sei stata espulsa». Ora, tutti i ragazzi di tutte le scuole sanno cosa vuol dire essere espulsi.
Io chiesi subito: «Perché, perché, perché?» visto che non mi si poteva dire: «Perché sei stata maleducata, perché hai fatto una cosa gravissima». Ecco, io mi ricordo come un flash proprio questi minuti e gli sguardi di coloro che mi amavano e che mi dovevano dire che io ero stata espulsa «perché siamo ebrei e ci sono delle nuove leggi, per cui gli ebrei non possono più fare questo… questo… questo… questo».
Se uno di voi un giorno che non sa cosa fare e avrà voglia di leggere a fondo che cosa sono state le leggi razziali fasciste, in effetti troverà che una delle cose più crudeli fu quella di far sentire i bambini invisibili.
Senza nome
Entrammo nella prima baracca, noi così, coi nostri vestiti come eravamo scesi da quel treno e lì cominciammo a capire. Tutti dovevamo dimenticare il nostro nome. Ora, per tutti noi il nome è una cosa importante, in particolare nella tradizione ebraica: ogni uomo ha un nome. No. «Dimenticate il vostro nome, non interessa a nessuno. Da ora in poi sarete numeri» ci dissero. Ci venne tatuato un numero sul braccio così ben fatto che dopo tanti anni anche il mio si legge perfettamente: 75190.
«Imparatelo subito in tedesco perché è questione di vita o di morte rispondere immediatamente al comando!». Ci fu veramente chi nei primi giorni morì per essere stato sordo e muto alla lingua nazista, per non aver risposto al richiamo del proprio numero.
La scelta di un attimo
Mi camminava vicino il comandante dell’ultimo campo. Era un uomo alto, elegante: si mise in mutande (…), buttò via la divisa, buttò via la pistola. Era per terra la sua pistola. Io non ero quella che sono oggi, mi ero nutrita di odio e di vendetta. Lasciando la mano sacra di mio padre, giorno dopo giorno, ero diventata un’altra, quella che loro volevano che io diventassi: un essere insensibile che sognava odio e vendetta. Pensai: io adesso raccolgo questa pistola, che avevo tanto visto usare, e gli sparo, perché mi sembrava proprio il giusto finale di quel periodo incredibile di cui ero stata testimone.
Quel giorno fu un attimo, un attimo importantissimo, decisivo nella mia vita: perché ho capito che mai per nessun motivo al mondo io avrei potuto uccidere qualcuno. Che non ero come il mio assassino. Non ho raccolto quella pistola e in quel momento sono diventata quella donna libera e quella donna di pace con cui ho convissuto fino ad adesso.