9 novembre 1989: il crollo del Muro
“Ab sofort” (“Da subito”). Due sole parole, pronunciate in maniera distratta, hanno accelerato il cambiamento della storia, annunciando la caduta del Muro, simbolo per tanti anni della Guerra Fredda. A pronunciarle Günter Schabowski, funzionario del partito di unità socialista della Germania durante la conferenza stampa, in diretta Tv, convocata nella sera del 9 novembre 1989, in risposta ai giornalisti che gli chiedevano informazioni riguardo alla concessione dei permessi di viaggio ai tedeschi dell’est. Una risposta presa subito alla lettera dai berlinesi, che si riversarono in massa nei pressi del muro. Le guardie, che non avevano ricevuto alcun ordine a riguardo, spiazzate, aprirono i varchi.
Il resto è cronaca. Le immagini dell’abbattimento, la gioia e l’euforia per la libertà riconquistata, e la fila delle “Trabi” ai check point hanno fatto il giro del mondo. Finalmente un popolo, dopo 28 anni (nell’agosto 1961 la prima costruzione del muro), si riuniva.
Il cambiamento era già in atto. Già nell’agosto, il cancelliere Helmut Kohl, aveva raggiunto un’intesa con l’Ungheria per aprire il confine con l’Austria, con il conseguente esodo di tanti tedeschi orientali. Erich Honecker, della Repubblica Democratica Tedesca, davanti all’esodo di massa, e alle dimostrazioni a Dresda e a Lipsia, tentò di stroncarlo con la forza, cercando l’appoggio dell’esercito sovietico.
La volontà popolare di porre fine alla divisione della Germania era chiara. Durante la sua visita a Berlino est il 6 e 7 ottobre 1989, Gorbaciov avvertì Honecker che “la vita avrebbe punito i ritardatari“, palesando così la scelta di lasciare liberi i tedeschi sul loro destino. I soldati sovietici ricevettero l’ordine di non fare alcuna azione di repressione contro i dimostranti. Il 17 ottobre 1989 Honecker si dimette.
Appena una settimana dopo dal crollo del Muro, a Praga, gli studenti scendono in piazza e il 17 novembre in Cecoslovacchia la manifestazione pacifica ricordata come “la rivoluzione di velluto”.
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Un cronista a Berlino
A raccontarci quei giorni è il giornalista toscano Flavio Fusi, per trent’anni inviato Rai, in quei giorni a Berlino.
C’era lei quando Günter Schabowski annunciò l’apertura delle frontiere?
Gunther Shabosky fu mandato allo sbaraglio ad affrontare i giornalisti di tutto il mondo e non preparato disse “si aprono le frontiere”. Ero nella stanza della conferenza stampa, ma fu un collega dell’Ansa che viveva in Germania che chiese, “Ma allora anche Berlino?” e lui rispose “Sì, da subito”. La gente appresa la notizia in diretta televisiva si riversò alle frontiere e ai check point chiedendo di passare perché “L’avevano detto alla tv”. La città era come impazzita, il colonnello Harald Jäger, responsabile del posto di confine di Bornholmer Strasse (quello posto più a nord tra i sette all’interno della città), telefonava ma nessuno rispondeva, di fronte alla decisione se interventire con le armi (ma sarebbe stato un eccidio), o aprire, scelse la seconda. Sotto la mia finestra d’albergo, il fiume di gente che si affollava.
Quali le emozioni tra la folla?
Un’iniziale confusione e paura, perché c’erano persone nate con il muro, quella era stata fino ad allora la loro realtà. La gente chiedeva a noi giornalisti “Ma poi possiamo tornare indietro?”, perché non sapevano se il giorno dopo avrebbero richiuso. Poi al clima di paura si è sostituita la festa, il ricongiungimento con gli amici e i parenti dall’altra parte. Solo la mattina dopo si è capito che veramente la storia stava cambiando”.
C’è un colore che le ricorda quel giorno ed i successivi?
Due colori: il nero e il rosso. L’annuncio fu verso le 7 di sera. A mezzanotte insieme al mio operatore decidemmo di andare a fare qualche ripresa, e così ci siamo diretti a piedi in mezzo alla folla verso la porta di Brandeburgo. Siamo arrivati proprio nel momento in cui la porta veniva aperta. Mi ricordo la folla che gridava, tanti giovani, e poi intere famiglie, una ragazza con le candele accese. Le abbiamo chiesto di posizionarla davanti alla telecamera per fare un’inquadratura più bella. Si vedevano, riflesse sul muro, le sagome nere impettite dei militari, e dietro di loro tutto era rosso. Poi le sagome sono sparite (i militari avevano lasciato il controllo), la gente ha iniziato a salire sul muro”.
Ed un suono?
La colonna sonora resterà quella del concerto all’aperto improvvisato su uno sgabello il giorno dopo dal violoncellista Mstislav Rostropovič al Checkpoint Charlie, accanto a ciò che rimaneva del Muro. Per me è la canzone di Ingrid Caven Un pipistrello tra i capelli. Quando penso a quei giorni mi torna alla mente la sua voce drammatica, non so per quale motivo.
Incontri che le sono rimasti nella memoria, una frase, un gesto…
Kristin, la giovane interprete, figlia di un diplomatico della Germania est. Nei giorni prima del crollo mi portò ad un incontro all’Università con la scrittrice Christa Wolf, uno degli animatori del forum di cittadini e intellettuali che si batteva chiedendo riforme in Germania est. Kristin si presentò con un mazzo di fiori per Christa, un gesto che mi è rimasto impresso.
In quei giorni ho incontrato tanta gente, ho ascoltato i racconti di vita di tanti, di cui non ricordo il nome. Tra questi, uno studente. Il muro aveva diviso la sua famiglia: la madre a est con i genitori, la sorella ad ovest. Una famiglia divisa per oltre venti anni per soli 200 metri. Il muro aveva delle zone grigie, terre di nessuno, come quello davanti a Postdamer Platz, dove era doppio, diviso da una terra di nessuno di 400 metri. Lo abbiamo attraversato con la folla. C’era un ragazzo con il figlio piccolo sulle spalle, che mi ha raccontato la sua storia, era dispiaciuto e preoccupato, perché non sapeva cosa sarebbe accaduto.
È tornato poi a Berlino?
Sono tornato con il TG3 l’anno dopo per vedere come era cambiata e ho avuto l’impressione di una città a due velocità. Silenzio e grigio a Berlino est, grandi viali alberati, poco traffico, mentre ad ovest un esplodere di colore, con le bancarelle piene di cose, cinturoni e medaglie dei militari, la svendita di una storia. Lo stesso vissuto a Mosca. Come due mondi che si annusavano uno con l’altro ma che ancora non si riconoscevano.
L’indomani di quel 9 novembre e dopo lo storico concerto dei Pink Floyd del 1990, la storia si è dimenticata del Muro?
La caduta del muro a est fu il momento più alto dell’Europa, un trionfo europeo, perché con Berlino, e la Germania riunita, l’Europa si candidava ad essere una delle protagoniste mondiali. Oggi, dopo 30 anni, l’Europa purtroppo non ha saputo far tesoro di quella grande occasione e diventare una Patria comune. Ferma sulla burocrazia, non siamo stati capaci di dare una prospettiva sociale al continente. Per Berlino e i berlinesi è stato un cambiamento necessario, anche se è costato molto sia in termini economici che sociali.
È più tornato a Berlino?
Ci sono tornato negli anni ’90, e già allora la città era molto diversa. Non ho poi avuto occasione di tornarci. Sarà uno dei miei prossimi viaggi.
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Impressioni di viaggio. Berlino oggi
A raccontarci la Berlino di oggi è una giovane coppia di quarantenni toscani, che questa estate si sono recati in visita nella capitale tedesca con la famiglia.
Berlino oggi è una città moderna, organizzata, che nasconde dietro un’impeccabile organizzazione, una voglia di apertura, un caos controllato. Sa darti il tuo spazio, e sa trovare soluzioni sia per chi sceglie di viverci, che per chi se la gode soltanto qualche giorno da turista. Gente che sorride, si veste come vuole, ed è a suo agio in ogni situazione. Nessuno a Berlino è fuori luogo.
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Il libro
Flavio Fusi, Cronache infedeli, (ed. Voland)