«Non ti manchi mai la gioia» lo scriveva duemila anni fa il filosofo latino Seneca nella Lettera a Lucilio n. 23, lo scrive oggi Vito Mancuso, teologo e filosofo che alla gioia ha dedicato un saggio edito da Garzanti. In un mondo come quello odierno, spesso preda di rabbia e risentimento, un inno alla gioia è ciò che serve per vivere in pienezza.
Che cos’è precisamente la gioia?
Definisco la gioia “accordo di sé con sé”, il significato lo si capisce in contrapposizione alla felicità che è “l’accordo di sé con il mondo”, un’emozione universale, che dipende soprattutto dall’esterno ed è per questo che è passeggera. Lucio Dalla, di cui ho avuto la fortuna di essere amico, cantava: «Ah, felicità su quale treno della notte viaggerai, lo so che passerai e non ti fermi mai». La gioia invece è frutto di un lavoro, di una disciplina, non arriva spontaneamente, ma quando arriva si ferma.
Quindi la gioia è qualcosa che può essere costruita?
Sì, è così. Faccio mie le parole di Seneca a Lucilio quando gli scrive: «Impara a gioire». In latino il verbo discere, cioè imparare, rimanda alla disciplina, allo sforzo che occorre compiere per giungere all’obiettivo: è il frutto di un lavoro con se stessi, dove emozioni, sentimenti e passioni si accordano a valori, ideali, virtù. È qui che nasce quella serenità, quella tranquillità, quella profondità che si può chiamare gioia, che si rivela sul volto con il sorriso, quel mezzo sorriso di cui parlano i mistici.
Il sottotitolo del libro è Breve itinerario di liberazione: da cosa ci dobbiamo liberare?
Dalla paura, anzitutto, dalla rabbia, dalla tristezza, dalle emozioni negative, dall’egoismo, dalle tossine psichiche che abbiamo dentro di noi. Noi siamo corpo, psiche e spirito, abbiamo delle malattie del corpo e della psiche, ma anche dello spirito, dovute a tante false idee su noi stessi, sugli altri, su ciò che conta veramente nella vita; queste false idee procurano malessere, quindi dobbiamo liberarci soprattutto dall’ignoranza di tipo spirituale.
Lei suggerisce di compiere dei passi liberatori: quali?
Innanzitutto, la conoscenza di sé: il primo fondamentale passo è quello che proviene dalla luce dell’intelligenza e ci fa capire di cosa si soffre. Ci si dovrebbe chiudere nella propria stanza e fare quello che gli antichi, il primo è stato Pitagora a parlarne, hanno definito l’esame di coscienza: perché sto male? perché faccio fatica a sorridere? da dove viene la mia rabbia? Questi sono piccoli esercizi di liberazione. Il primo passo è appunto capire di che cosa si soffre.
Qual è il passo successivo?
Qualcuno dovrà diventare più altruista, qualcuno dovrà proteggersi di più dalle invasioni degli altri, qualcuno dovrà mollare la tensione perché è sempre preso dal lavoro, qualcun altro invece dovrà trovare la forza di “produrre” di più. A seconda del tipo di diagnosi che la mente ha saputo discernere, segue il secondo passo. Certamente non basta una volta, è un processo che occorre intraprendere con costanza: come l’educazione del corpo richiede tempo e assiduità, lo stesso vale per la dimensione spirituale.
Come procedere?
C’è chi riuscirà a farlo da solo, chi ricorrerà alla meditazione, chi ancora dovrà rivolgersi alla psicanalisi. Ci sono poi delle pratiche che possono aiutare ad ascoltare se stessi: camminare nella natura la mattina presto, leggere ad alta voce, ascoltare la musica, a seconda delle proprie attitudini ciascuno troverà la via per giungere alla connessione più preziosa che abbiamo, che è quella con se stessi.
Perché la gioia è associata al Natale?
Il Natale rimanda alla nascita, alla natura, alla generazione sempre viva e nuova del cosmo e di tutto ciò che il cosmo contiene. È il grande mistero. Amo molto il Natale perché è una festa che mediante l’indicazione della nascita di un bambino rimanda al mistero della nascita nostra e delle cose del mondo. E questa è una gioia profonda, avrebbe potuto non esserci nulla e invece ci siamo, da qui la meraviglia nei confronti della vita cosciente e consapevole di sé.