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A tu per tu con Gabriella Cella

È stata la prima ad adattare la disciplina delo yoga al mondo femminile. La incontriamo in vista della Giornata mondiale dello yoga del 21 giugno

Un vestito candido e una lunga treccia nera, con solo qualche filo d’argento tra i capelli. «Non so perché, ma non vogliono venire bianchi!», scherza Gabriella Cella mentre ci accoglie nella sua casa a Piacenza. Classe 1944, femminista della prima ora, oltre 40 fra manuali e libri pubblicati e tradotti anche in spagnolo e russo, centinaia di seminari in tutto il Paese (i primi proprio in Toscana), è considerata da tanti la pioniera italiana dello yoga al femminile.

Quando ha sentito per la prima volta parlare di yoga?

Alla fine degli anni Sessanta. Lavoravo a Pordenone e il principale della ditta chiese in un’edicola se avessero qualcosa sul tema. La parola mi colpì, ai tempi non era un termine comune, trovai a Piacenza una donna che praticava hatha yoga e da lì partì tutto. A 25 anni ero separata, avevo un figlio di 3 anni. Iniziai perché ero sempre malata e avevo problemi fisici.

Il primo viaggio in India l’ha pagato con la liquidazione.

Erano altri tempi ed era un’altra India: quando negli anni Settanta arrivai nella città di Rishikesh, esistevano solo due ashram (luoghi per pratica e meditazione, ndr); oggi ce ne sono centinaia. Ho viaggiato da sola, senza bagaglio, scalza, ho dormito nelle tende dei nomadi o all’aperto. A pensarci ora, mi dico che sono stata incosciente.

Fu una sfida?

Chiesi di entrare in un corso seguito esclusivamente da uomini. Mi dissero di no. Insistendo, ottenni di frequentare solo al mattino: mi alzavo all’alba e facevo chilometri a piedi, sotto la pioggia dei monsoni, ed era dura. Nel momento in cui decisi di mollare e andai a salutare lo swami, il maestro, questi mi permise di rimanere. Condividevo la stanza con una monaca, dormivo su una tavola di legno e frequentavo una classe di 30 ragazzi, che mi odiavano.

Perché?

Perché donna. Ero un’altra storia, occidentale, bianca. Loro erano figli di bramini o alcuni, giapponesi, di samurai. Lo yoga, oggi seguito da molte donne, è nato come una disciplina prettamente maschile, fatta dall’uomo in funzione dell’uomo, e all’inizio l’ho scelto volutamente per questo, per vedere se avevo la forza.

Poi ho capito che preferivo fare la “guerriera”, invece che il “guerriero” (nota posizione yoga, ndr). Allora ho tradotto lo yoga al femminile e ho cominciato a lavorare su di me, su altre donne, andando a vedere che cosa avevamo dentro e come potevamo usare questa luce, questa gemma. Da qui il nome del mio metodo, Yoga Ratna, che vuol dire gioiello.

Perché fare yoga?

Mi rivolgo alle persone perché inizino a guardarsi dentro e ad ascoltare di più il respiro. Forse non è un caso che lo yoga sia tornato così in voga, evidentemente abbiamo bisogno di qualcosa che ci rimetta in equilibrio. Anche se adesso, forse, è esageratamente di “tendenza”.

Troppo di moda?

Si rischia di sminuire la profondità e le radici di una disciplina antichissima. Nel 1980, quando ho scritto il primo manuale Yoga e sSalute, il fotografo mi propose di fare le posizioni indossando i capi intimi di una nota marca, per pubblicità. Mi sentii offesa. Certo, se avessi accettato, sarei diventata ricca, ma lo yoga è un’altra cosa.

Come affronta questa nuova stagione della sua vita?

Leggo, scrivo e, per fortuna, ho lo yoga. Da giovane tendi a viverlo più esteriormente, mentre man mano che vai avanti entri sempre più in profondità. Adesso ho quasi 81 anni, il corpo non risponde più come prima. È cambiata la pratica fisica che faccio, più piccola e semplice, ma sono sempre in contatto con me stessa. Ed è difficile che mi perda questo contatto, anche se è un periodo complesso della mia vita, con cose che non ho mai affrontato prima. Faccio fatica, sì, ma lo yoga mi aiuta sempre.

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