A tu per tu con Chiara Rapaccini

Chiara Rapaccini racconta la sua vita con Mario Monicelli, cantore di una Firenze che non c’è più

C’è molta Firenze, c’è molto Monicelli, c’è molto Amici miei. E c’è la voce di una ragazzina bella, fiera e decisa, che nel mezzo degli anni ‘70 veste hippie, posa come modella per un pittore e non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. E che, un giorno del 1975, incontra Mario Monicelli. Ad una manifestazione lei sta gridando: «Io sono mia». Ma le bastano pochi secondi, poche frasi, un incrocio di sguardi, per pensare: «Io sono tua».

Chiara Rapaccini è oggi una apprezzata pittrice, illustratrice e scrittrice. Nel libro Mio amato Belzebù, uscito per Giunti, racconta quarant’anni di vita con Mario Monicelli. Senza fare sconti, senza addolcire niente. Con tagliente ironia toscana, e una tenerezza che affiora quando meno te l’aspetti.

Lei aveva diciannove anni, lui quasi sessanta. Lei con gli amici di Lotta Continua e con i primi disegni pubblicati. Lui un regista affermato, rispettato, a volte temuto. È a Firenze, la città di Chiara, per girare Amici miei. Lei è centralinista nell’hotel dove la troupe ha sistemato il suo quartier generale. Rientrano tutti sempre tardissimo, alticci, euforici. Poi, una mattina, Chiara si ritrova a fare la comparsa in Amici miei, nella famosa scena degli schiaffi alla stazione di Santa Maria Novella.

Che cosa ricorda, Chiara, di quella scena?
Si gira al binario 16. Un certo Vanzina, il giovane aiuto regista, mi dice che devo interpretare il ruolo – muto – di una viaggiatrice. Il treno si muove piano piano, Tognazzi e soci schiaffeggiano le comparse affacciate ai finestrini. Un uomo sta in disparte, immobile, e osserva.

Poi che cosa accadde?
L’uomo si accorge che una comparsa si scansa un po’ agli schiaffi. Blocca tutto. Urla: «Chi è quell’imbecille? Portatemelo qui!». Due assistenti glielo trascinano davanti, come un condannato a morte. L’uomo urla: «Te pagamo, e tanto, pe’ piglia’ gli schiaffi! Chiaro? È chiaroooo?». La comparsa, un omone grande e grosso, piagnucola, «me scusi sor Mario, giuro, nun me scanzo più! Li voglio prendere gli schiaffi, vedrà mo’ come li prendo…». Pensai: «Monicelli è un mostro, e quelli del cinema sono matti da legare».

Invece con quel “mostro” ha vissuto quarant’anni.
Quarant’anni di battaglie. Sono stata gettata di colpo in un mondo di “vecchi famosi”: sceneggiatori, attori, scrittori. A cena con Moravia, Laura Betti, Marcello Mastroianni, Benvenuti e De Bernardi, Dino Risi, Ettore Scola. Mi intimidivano tutti. Col tempo, mi sono abituata.

Come ha mantenuto la sua indipendenza?
Perché ho scelto di non fare parte del mondo del cinema. Chiunque al mio posto avrebbe voluto fare l’attrice, la scenografa, la costumista. Io sapevo che avrei dovuto resistere. A lui non potevo. Al suo mondo, sì.

Il momento più difficile?
Quasi tutti. Mario che dava appuntamenti improvvisi, a Venezia: «Sarò a Venezia domani. Vieni alle 18 se ti va» – o a Parigi – «Vieni domani, mi manchi» – mordendomi alla gola con una urgenza, una scelta da compiere subito, senza esitazioni. Ma più terribile di ogni cosa, l’incidente stradale che ridusse Mario in fin di vita. L’elicottero che sputò sulla terrazza dell’ospedale un letto collegato a mille macchinari: e dentro, un omino pallido che respirava ossigeno.

Pagine preziose, sospese fra commozione e ironia, disincanto e tenerezza. Marcello Mastroianni fissato con la cucina; lei stretta fra Catherine Deneuve e Aurore Clément in un taxi lanciato a 150 all’ora per sfuggire ai paparazzi parigini. Aneddoti, incontri, personaggi. E il pensiero che la vita è fatta davvero di sliding doors: se Chiara non avesse fatto la comparsa quel mattino alla stazione, o se Amici miei lo avessero girato a Bologna – come previsto, quando il regista designato era Pietro Germi -, la vita di Chiara sarebbe stata tutta un’altra. E anche quella di Monicelli.

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