Ai tempi dell’Unità d’Italia, nel 1861, l’aspettativa di vita italiana era attorno ai 30-32 anni, un bambino su quattro non arrivava al primo compleanno, metà dei figli non arrivavano all’età dei genitori. Oggi viviamo in media, secondo i dati Istat più recenti, 83 anni, e quindi ne abbiamo guadagnati oltre 50. Oggi la popolazione over 65, che nel passato in Italia non superava il 5% della popolazione totale, rappresenta il 23% e a metà di questo secolo raggiungerà il 33-34%.
In contemporanea assistiamo a una riduzione della fecondità. L’Italia si contraddistingue non tanto per la longevità, che è in linea con quello che accade negli altri Paesi, ma per una denatalità particolarmente accentuata: da oltre 40 anni la fecondità è sotto l’indice di 1,5 figli per donna, con le dinamiche recenti in ulteriore peggioramento. L’Istat nel 2024 ha fotografato una media di 1,18 figli per donna, che in prospettiva vuol dire che ogni nuova generazione si dimezza rispetto a quella precedente.
I giovani sono un bene che sta diventando sempre più scarso. Se nel 1950 l’italiano tipo era un trentenne e la maggioranza della popolazione italiana aveva meno di 30 anni, oggi gli under 30 sono il 27%, il dato più basso in Europa, e l’italiano tipo ha 55 anni. Diventa necessario quindi tenersi in buona salute a lungo ed essere attivi, perché questo è un bene di per sé e consente anche di avere un’economia e una società più sostenibile.
La non autosufficienza, che si sta spostando oltre gli 80-85 anni, richiede cure e assistenza prolungate e, di conseguenza, un sistema sanitario solido, ma anche servizi domiciliari integrati che consentano di prendersi cura di questa parte particolarmente fragile della popolazione.
Se, a fronte dell’aumento della popolazione anziana, si riduce quella in età lavorativa, il rischio è che ci siano minor sviluppo e minori possibilità di pagare contributi e tasse per finanziare il sistema di welfare. E anche meno persone che poi si occupino dei servizi di welfare nei confronti dei cittadini, ad esempio gli infermieri, figure che già tendono a mancare nei Paesi con economie avanzate. Dove ci sarà, invece, più possibilità di valorizzare le competenze dei giovani, a qualsiasi livello, maggiormente quei contesti saranno attrattivi.
Gli altri territori rischiano di perdere il capitale umano delle nuove generazioni e di accentuare ancora di più la propria condizione di svantaggio rispetto alle potenzialità della forza lavoro. Quindi, se non si valorizzano i pochi giovani, frutto della bassa natalità, il rischio è che questi se ne vadano altrove. Infatti, è quello che sta succedendo: dal sud Italia molti giovani si spostano verso il nord e da qui verso l’estero.
Per vincere la sfida di trasformare la longevità in qualcosa di positivo, e comunque di sostenibile, è necessario avere un’economia solida che risponda alla riduzione demografica della forza lavoro con un maggior coinvolgimento dei giovani, attraverso politiche abitative e politiche attive del lavoro, con particolare riguardo alle donne e agli immigrati.